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8 Luglio 2021

Calabria: storia di chi torna e dice grazie

Per anni io e Peppe Smorto abbiamo lavorato insieme e lui ha cercato di raccontarmi la sua terra giocando coi luoghi comuni. Ora invece ha scritto un libro per superarli tutti e ribellarsi a chi dice che la Calabria è la parte perduta dell’Italia
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«Il primo problema è che la Calabria perde abitanti, cervelli e laureati. Restano quelli con il reddito di cittadinanza, quelli che lavorano per lo Stato e i pensionati. Anzi ora c’è un fenomeno nuovo: anche i pensionati partono, vanno a fare i nonni a casa dei figli che sono andati a lavorare al nord o all’estero. Per scelta restano solo i coraggiosi e i visionari». Questi ultimi sono i protagonisti del viaggio di Giuseppe Smorto, detto Peppe, che è tornato nella terra da cui era partito 46 anni fa per andare a studiare a Roma. Un viaggio «lungo il sentiero della terra non rassegnata».

Processione dei Santi Cosma e Damiano a Riace (credits: Marco Costantino)

«La Calabria delle persone è poco narrata, più facile dividerla in “locali” di ‘ndrangheta (si chiamano così le cosche che si spartiscono i paesi e il territorio), più facile rimuovere questa terra come se non fosse Italia. Invece qui tocca cambiare lo sguardo». L’idea di cambiare il modo di vedere le cose per uscire dagli stereotipi e costruire possibilità nuove è una delle sfide che preferisco. Così quando ho visto che Peppe aveva scritto un libro per raccontare le persone che restano, per elencare senza indulgenza i problemi, ma accompagnandoli con le storie di chi prova ad affrontarli, mi è venuto in mente un rito che si è ripetuto a lungo. Ho lavorato con Giuseppe Smorto per molti anni e per tre di questi è stato il mio vicedirettore a la Repubblica. Ogni volta che andava a trovare la madre ci portava la ‘nduja, l’insaccato piccante calabrese, lo stereotipo per antonomasia. Lo faceva per prenderci in giro, come quella sera che durante la riunione per la prima pagina si mise a disegnare una cartina della Calabria e a fare lezione: «Qualcuno di voi sa che forma ha la Calabria? Avete idea di dove sia esattamente Cosenza, dove Crotone e dove Sibari? Stasera ve lo faccio vedere: ci sono 800 chilometri di coste, ci sono mondi diversissimi, uno studio economico ha identificato nove Calabrie, ma la vulgata riduce tutto a una sola realtà. Perduta». Dietro l’ironia era molto serio, quella sera qualcuno doveva aver fatto una battuta o confuso la costa jonica con quella tirrenica e per una volta non aveva lasciato correre. 
Poi a novembre dell’anno scorso, nella rubrica delle lettere che teneva su Repubblica, Corrado Augias ha parlato della Calabria come di una terra perduta, irrecuperabile: «Quella mattina aprendo il giornale ci sono rimasto molto male, dolore puro, perché conosco bene lui e l’effetto è stato tremendo. Se dici che una terra è perduta, a chi ci prova, studia e lavora resta una sola possibilità: scappare. A me invece ha fatto scattare la molla di tornare per fare un libro».

Insieme a Giuseppe Smorto, in camicia azzurra a righe, riunione di redazione a la Repubblica per la prima pagina

Peppe è nato nel 1957 a Reggio Calabria e nel 1975 si è trasferito a Roma per studiare psicologia. A quei tempi studiare in Calabria non era possibile, la ferita della rivolta di Reggio era ancora freschissima e così l’attentato al Treno del Sole che deragliò a Gioia Tauro (fatti quasi dimenticati, scatenati dalla decisione di mettere il capoluogo di regione a Catanzaro e che provocarono numerosi morti). «Della Calabria, dopo la rivolta, venne fatta una divisione quasi militare: a Catanzaro la politica e la burocrazia e sono rimasti fermi lì; a Cosenza l’università che oggi va benissimo ed è la cosa riuscita meglio, ne è simbolo il campus di Arcavacata disegnato dall’architetto Gregotti; a Reggio Calabria infine decisero di mettere le industrie e qui per me il simbolo del fallimento è la Liquichimica di Saline Joniche. Una fabbrica per cui vennero spesi centinaia di miliardi di lire che aprì soltanto per due giorni, ma senza entrare mai in funzione. Ci sono operai che vennero assunti e che hanno poi preso la cassa integrazione per tutta la vita. Sono andato a vedere il suo scheletro sul mare e ho trovato i fenicotteri rosa che volano attorno alla ciminiera. All’opposto c’è il centro siderurgico trasformato nel porto di Gioia Tauro, che continua a crescere ed è diventato il primo in Italia per movimento container».

Sullo sfondo, presente in ogni riflessione e discorso, il potere asfissiante della ‘ndrangheta: «Ha un controllo quasi totale del territorio ma c’è sempre più gente che si ribella, che non si rassegna e questi sono quelli che bisogna ascoltare e raccontare. Sono coloro che meritano il nostro sforzo di non cadere nelle semplificazioni, di non considerare tutto uguale e perduto». Peppe mi racconta di aziende costrette ad aprire una sede a Milano, a spostare l’indirizzo perché, dicono, “Se un prodotto è targato Calabria non ci ascolta nessuno, hanno paura che siamo mafiosi e che non paghiamo, è lo stigma più forte d’Italia”
Giuseppe Smorto è un giornalista che ha passato gran parte della sua vita nella cabina di regia, a fare – come si dice in gergo – “la macchina”, quasi sempre a Repubblica: ha guidato la redazione sportiva, quella di Torino, il “Venerdì”, il sito per oltre dieci anni e infine è stato vicedirettore del giornale. Dopo le parole di Augias ha scelto di tornare a fare il cronista, percorrendo la terra dei suoi genitori a piedi, in treno, in auto e in bici per scrivere “A Sud del Sud, viaggio dentro la Calabria tra diavoli e resistenti”. Ma non per nostalgia: «Non ti nego di averla provata spesso in questi anni, ma la considero un fattore negativo perché la nostalgia toglie spazio alla voglia di cambiare».

«Ci sono territori completamente abbandonati e così consegnati nelle mani della criminalità ma io sono partito da quelle macchie di buona imprenditoria che emergono con coraggio, dall’università di alto livello, penso all’informatica a Cosenza, e dalle realtà schierate contro la ‘ndrangheta, che chiedono di lavorare sui terreni confiscati. Ho fatto un percorso nelle storie delle persone che hanno scelto di restare e di costruire realtà di lavoro interessanti. Come in tutto il Sud c’è una vocazione all’assistenzialismo, ad aspettare lo Stato, ma vorrei dire, provocatoriamente, che lo Stato c’è e pure troppo, perché c’è nel modo sbagliato, nel senso che paga le pensioni e il reddito di cittadinanza ma non sostiene iniziative nuove, non fa scattare la molla del cambiamento».

I kiwi coltivati sul terreno confiscato alla criminalità utilizzato dalla cooperativa sociale Futura di Maropati (credits: Marco Costantino)

Uno dei capitoli più sconfortanti è la descrizione della sanità calabrese: le liste d’attesa di un anno, i posti in terapia intensiva che non ci sono, le infiltrazioni che non solo controllano gli appalti ma le carriere dei medici, i certificati vaccinali scritti a mano e non registrati nel database nazionale: «Dove ci sono i soldi c’è la ‘ndrangheta, e nella sanità di soldi ce ne sono tanti. E la risposta dello Stato, in questi interminabili anni di commissariamento, non è stata lineare. Prendete la storia di Santo Gioffrè, un medico ginecologo nominato commissario all’Asp (azienda sanitaria provinciale) nel 2015. Scopre che non esiste un bilancio, che privati esigono e spesso ottengono il pagamento di fatture due o tre volte, scrive in un libro che nella Asp regna incontrollata un’associazione criminale che gestisce posti di lavoro e convenzioni. C’erano impiegati che “omettevano di verificare la fondatezza dei crediti vantati”. C’è persino uno studio radiologico che chiede – per la seconda volta – il pagamento di una fattura di quattro milioni di euro». A fermare Santo Gioffrè ci ha pensato un’interrogazione parlamentare: «Per quegli strani casi del destino è un’interrogazione del Movimento 5 Stelle firmata dal presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra in cui si dice che Gioffrè era stato candidato sindaco, poi non eletto, a Seminara, 2750 abitanti. Tanto è bastato per mettere fine all’avventura». 
Le denunce di un altro medico che era diventato anche vicepresidente del Consiglio regionale, Francesco Fortugno, vennero ritrovate chiuse in un armadio del Tribunale di Locri a venti giorni dalla prescrizione, lui nel frattempo era stato assassinato.

Il mare di San Nicola Arcella. 
Tutte le fotografie della Calabria sono di Marco Costantino, classe 1975, scopre la fotografia seguendo il corso universitario di “disegno e rilievo” al mattino e imparando ogni pomeriggio il lavoro con Silvio Mavilla, professore all’Accademia di Belle Arti e fotoreporter/memoria della Rivolta di Reggio del 1970. Affianca il lavoro fotogiornalistico alla documentazione di concerti e spettacoli e produzioni teatrali. La fotografia è per lui lavoro e passione: come succede con la sua città, Reggio Calabria, che Costantino ama ritrarre nei suoi chiaroscuri, ricordando che più intensa è la luce, più profonde saranno le ombre.

Nel libro si incontrano persone bellissime, che vivono guardando avanti, senza fermarsi nonostante intoppi, attentati, burocrazie e abbandono, ma da Peppe vorrei anche un elenco dei motivi per cui ama la sua terra, per cui vale la pena andarci: «Ha 800 chilometri di coste ma è una regione rivolta verso la montagna, più di pastori che di marinai. Non posso che essere scontato e partire dicendoti: il cielo, il mare e la montagna: una varietà di panorami pazzesca. Corrado Alvaro diceva: “La Calabria è una pura bellezza geologica”. Io aggiungerei: poi dove è arrivato l’uomo ha fatto casino».
Insisto per l’elenco e alla fine cede: 
«Pentidattilo, un paesino completamente abbandonato sulla costa ionica reggina, arroccato sotto una montagna a forma di cinque dita. Gli abitanti se ne sono andati negli Anni Settanta e, come è successo a tanti paesi della montagna, si sono trasferiti in un paese nuovo che nasce – e qui Beppe ruba l’espressione all’antropologo Vito Teti – come la periferia di qualcosa che non c’è più. Il paese vecchio è stupendo e ora stanno ritornando delle botteghe artigiane.
Fiumefreddo Bruzio, un borgo con un panorama pazzesco che arriva fino alle Eolie. Tutta la tirrenica da Scilla fino ad Amantea vede i tramonti sulle Eolie.
Reggio guarda l’Etna ma in mezzo c’è il mare, si può chiedere di più?
Il canyon delle Valli Cupe, una riserva naturale di gole, cascate e bosco ai piedi dell’altopiano della Sila che non conosce nessuno. 
Il profumo di funghi in montagna e di gelsomini sulla costa.
Ma quello che mi piace più di tutto è il vento. Tutto è limpido e si vede lontanissimo».

L’isola di Dino in lontananza vista dalla spiaggia di Praia a Mare (credits: Marco Costantino)

Gli chiedo dove stia la speranza. «C’è un professore di fisica che studia le astroparticelle all’università di Amsterdam, si chiama Gianfranco Bertone, e organizza un premio internazionale a Reggio Calabria dove porta migliori scienziati del mondo e invita la sua professoressa di scienze del liceo per ringraziarla di averlo fatto appassionare alla sua materia. Fa un lavoro pazzesco con questo premio. Io credo nel concetto della restituzione, ci penso continuamente. E per convincere qualcuno a restare serve qualcuno che torni, che ci creda. Dopo la pandemia sono più fiducioso, mi ha dato speranza il fenomeno di professionisti e laureati che sono tornati e fanno smart working, il cosiddetto “South working”. Questo introduce un altro discorso interessante: il digitale può veramente far fare un salto. Puoi aggirare non solo i limiti delle infrastrutture ma anche la criminalità per cui è più difficile controllare processi digitali».

Gianni Mura e Giuseppe Smorto

Non mi ha parlato di cibo, eppure per anni l’ho sentito raccontare dello zafferano, dell’arancia tardiva, dei tanti presidi slow food e di un caciocavallo particolare. Forse capisco perché: a scoprire la gastronomia calabrese andava con una delle persone a cui voleva più bene, Gianni Mura, il grande raccontatore di sport scomparso il 21 marzo dello scorso anno.
«Portavo Gianni in Calabria, facevamo dei viaggi per ristoranti, poi lui ne parlava nella sua rubrica sul Venerdì. La prima volta andammo al ristorante l’Accademia di Reggio, di proprietà di un testimonial antiracket di Libera, e lui si mise a parlare in latino con una professoressa seduta a un tavolo accanto al nostro. La seconda volta, eravamo a Villa San Giovanni, i camerieri erano svogliati, l’esposizione del menù appena sufficiente, ci fecero aspettare una vita: un disastro, da alzarsi e andarsene. Poi tra il primo e il secondo piatto qualcuno lo riconobbe e improvvisamente arrivò lo chef e si risvegliarono tutti, una scena comica. Voleva andare a tutti i costi alle falde dell’Aspromonte, al ristorante museo Tipico Calabrese a Cardeto, dove il proprietario è un grande cultore delle tradizioni popolari, ma non abbiamo fatto in tempo». 

PS: sono anni che Peppe mi rimprovera perché non ho mai presentato un mio libro in Calabria, alla fine della telefonata mi ripete l’invito. Posso tirarmi indietro? Così domenica 29 agosto sarò a Reggio Calabria! 

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