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10 Marzo 2020

“Ci faremo ricrescere la barba”

L’ospedale “Luigi Sacco” di Milano, nato alla fine degli anni Venti come sanatorio per malati di tubercolosi e diventato il polo medico universitario milanese nel 1974, è il centro di riferimento per il Nord Italia per le emergenze epidemiologiche. È il primo ospedale a essere stato interamente convertito per affrontare il coronavirus, che causa la malattia respiratoria Covid-19. Con questa edizione speciale di “Altre/Storie” inizia un viaggio tra le persone che combattono su questo fronte
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«“Antonio, cosa ne pensi?”
“Ne penso il meglio, bellissima vacanza, Praga è meravigliosa”.
“No, Antonio, parlo della notizia”. Resto un momento in silenzio, il tempo esatto in cui mia moglie mi mostra un titolo dal suo cellulare che annuncia i primi casi nel Lodigiano.
“Antonio, è arrivato anche da noi, si fa unità di crisi, vieni subito”».

Sono le 7:40 del mattino di venerdì 21 febbraio quando Antonio Castelli, 56 anni, responsabile della Rianimazione dell’Ospedale “Luigi Sacco” di Milano, riceve la telefonata del direttore della Terapia intensiva del Policlinico, Giacomo Grasselli. Antonio sta guidando, accanto a lui c’è la moglie, cardiochirurga nello stesso ospedale: si sono conosciuti quando studiavano Medicina. Sulla via del ritorno da Praga avevano programmato di fermarsi due giorni in montagna in Austria. Invece si dirigono subito al Brennero. Alle 14 Antonio Castelli arriva nel suo reparto a Milano. Lo trova deserto, completamente svuotato, capisce immediatamente che anni di esercitazioni, simulazioni e studi ora sono diventati realtà. Non è un film. È venuto davvero il momento di tagliarsi la barba, quella barba che portava da più di trent’anni.

Antonio Castelli, ritratto di Marta Signori

«Entro nella mia Rianimazione ed è vuota, tutto abbandonato, non ci sono i malati ma solo il disordine di una fuga improvvisa. Allora vado alla Terza Divisione Infettivi, quella del professor Massimo Galli, dove avevamo organizzato gli spazi per fronteggiare Ebola cinque anni fa. Lì invece c’era il mondo. Nel tempo che io avevo impiegato per arrivare dal Brennero a Milano erano riusciti a svuotate il reparto, a organizzare quattro letti con il biocontenimento per accogliere gli altamente contagiosi e a occuparli con i primi malati arrivati da Codogno. Uno di loro era il cosiddetto paziente due, di soli 42 anni, collegato al paziente uno. Tutto aveva preso una velocità sconosciuta. Il lunedì successivo, il 24 febbraio, i letti in Terapia intensiva erano già diventati undici».

Giovedì 27, appena riaccende il telefono alla fine del turno di notte, viene chiamato nuovamente da Giacomo Grasselli, gli chiede di andare all’Ospedale di Lodi per capire come si possa sostenerli di fronte a un’escalation del coronavirus così massiccia e drammatica. Antonio sale in macchina, non immagina nemmeno lontanamente cosa lo aspetti. «Sono entrato nel Pronto soccorso, era letteralmente stipato di pazienti in gravi difficotà respiratorie. Erano ovunque e quando dico ovunque intendo che ogni mattonella del pavimento era occupata. Il malato meno grave era una donna che respirava ossigeno puro, alla sua barella era stata appesa una bottiglia d’acqua, un particolare che mi è sembrato un segno di grande sensibilità. Era sovraffollato: 70 uomini e donne tutti insieme che non riuscivano a respirare. Ma non c’era caos, piuttosto un ordine e una dedizione straordinari. Una cosa che ricorderò per tutta la vita».

Il responsabile del Pronto soccorso, Stefano Paglia, era lì da otto giorni, non era mai uscito, comunicava con la moglie e le figlie solo su WhatsApp e dormiva per periodi di due ore tra un’ondata e l’altra. Perché arrivavano due ondate al giorno, dieci-quindici malati alla volta, la mattina presto o al tramonto. Arrivavano le persone che non erano riuscite a dormire la notte, che avevano aspettato l’alba angosciate e con la prima luce si erano decise ad andare all’ospedale o quelle che dopo una giornata di peggioramenti avevano paura del buio che stava per arrivare.

lodi - giovani medici ospedale maggiore
Stefano Paglia (a sinistra), foto da “Il Cittadino di Lodi”

Antonio Castelli incontra tutta la direzione: «Avevano facce sfinite e la sensazione che non fosse compresa la dimensione del problema. Ho detto subito: “Non sono venuto qui per controllare, ma per testimoniare cosa fate”. E allora è giusto che si sappia cosa hanno fatto a Lodi, quando Codogno era già stata chiusa: hanno fatto un lavoro da eroi e non uso questa parola nel modo abusato che va di moda oggi. Sono stati eroi nel senso letterale del termine. Mentre mi raccontavano la situazione, mi sono commosso per la capacità di tenuta ed efficienza di quel gruppo di medici e infermieri». Quella stessa notte dieci malati da Lodi vengono trasferiti al “Sacco”, i più gravi vanno alla Rianimazione dell’Humanitas, che aveva appena messo a disposizione alcuni posti in Terapia intensiva. Quarantotto ore dopo, il sabato, riescono a chiudere per un giorno l’accettazione di Lodi, per far respirare tutto il personale.

Stefano Paglia ed Enrico Storti, che guida i rianimatori di Lodi, creano un metodo di grande buon senso per individuare subito i pazienti Covid-19, un metodo che potremmo chiamare “Lodi”, destinato a fare scuola: «Non si basa sulla febbre, ma sulle difficoltà respiratorie e sulla zona di provenienza – spiega Castelli – su questa base facevano la prima divisione dei pazienti e li mettevano in isolamento. Poi per separare i più gravi dai meno gravi facevano una lastra toracica e misuravano il tasso di saturazione dell’ossigeno nel sangue, dopo averli fatti camminare lungo i 50 metri del corridoio. Così hanno fatto fronte all’emergenza con estrema lucidità già nel cuore di quella notte tra il 20 e il 21 febbraio».

Il pomeriggio di quel 27 febbraio Castelli scrive la sua relazione, paragona Lodi a uno scoglio «che riceve continuamente lo schiaffo dell’onda». È il punto più esposto d’Italia, ma è una zona a bassa densità di popolazione; bisogna circoscrivere il contagio perché, se si allarga, allora si rischia la catastrofe: «Se l’onda supera questo scoglio – scrive – dietro c’è Milano. Non ce lo possiamo permettere».

Lo interrompo. Sono passate due settimane da quel giorno, gli chiedo se l’onda sia arrivata a Milano: «No, non con quella forza. Ma la possibilità che uno tsunami ci travolga è alta. Tutto dipenderà dalla capacità dei cittadini di stare in casa, separati gli uni dagli altri. Io non so cosa stia succedendo nelle strade, ma mi dicono che finalmente la città sia vuota; quando nei giorni scorsi ho visto le foto dei bar sui Navigli, pieni all’ora dell’aperitivo, e la gente a cena nei ristoranti, ho pensato che fosse follia, follia pura. Un’idea distorta e onnipotente che i giovani siano immuni dal contagio».

Un’idea difficile da scalfire, confermata dalle tabelle con le età dei deceduti. «Certo, la maggior parte delle polmoniti virali colpisce i più anziani, ma ci sono anche i giovani; non dimentichiamoci che il paziente uno ha 38 anni e che il primo contagiato da lui, dopo la moglie, ne ha 42. Entrambi sono vivi e non più intubati, ma sono finiti in Terapia intensiva. Esiste solo una possibilità, qualunque età uno abbia, quella di ridurre il tasso di contagio. È l’esempio che ci viene dai giapponesi: culturalmente tengono di più le distanze, ma stanno mostrando grande coscienza sociale. Le scene di quelli che scappano per tornare a casa sono terribili, se penso che molti andavano al Sud portando il rischio di contagiare aree che hanno meno strutture e risorse».

I medici della Terapia intensiva del “Sacco” sono stati i primi a cambiare profondamente le loro vite: alcuni sono andati a dormire in albergo, vicino all’ospedale, e sono tornati a casa solo quando hanno trovato un posto dove mettere i figli; uno ha affittato un appartamento per paura di contagiare i familiari. Sono molto preoccupati, mangiano da soli, hanno spiegato ai bambini, anche ai più piccoli, che non possono abbracciarli e baciarli, si sono confinati in casa. «Io non dormo più accanto a mia moglie, ma nel divano-letto, non abbiamo più contatti fisici, non vorrei mai che un colpo di tosse improvviso di notte potesse segnalare che mi sono ammalato anch’io rischiando di contagiarla. Mangiamo ai lati opposti del tavolo, per scrupolo stiamo attenti a non toccare le rispettive posate e appena ho finito metto tutto io nella lavastoviglie».

Allo stesso modo, devono fare attenzione a ogni dettaglio, non scordare niente, cercare di fare di più ogni giorno: «Continuo a pensare che non basta mai. Non basta un letto in più, non basta un medico in più e sembrano non bastare mai i guanti. Quando si lavora su un malato, si cambia il secondo guanto anche dieci volte. Il primo è come una seconda pelle, arriva fino al gomito e non lo si toglie mai mentre si lavora. Gli altri si cambiano continuamente per non correre il rischio di contagiarsi. Quando ci si spoglia, si usa un guanto per ogni operazione. Tolgo la visiera e la lavo, poi devo cambiare il guanto; tolgo il camice e cambio di nuovo il guanto; tolgo i calzari e devo cambiare ancora il guanto. In questo ospedale è stata tenuta viva la cultura dell’emergenza, esercitazioni continue, ma bisogna stare attenti che non ti freghi la stanchezza. Quando di notte sei concentrato sul malato succede che non ti ricordi se hai fatto la procedura di sicurezza e ti prende l’ansia. Anche l’attenzione non basta mai».

In queste settimane si sono dovuti creare ogni giorno nuovi posti letto, ma non sono sufficienti. «Venerdì 6 marzo ci hanno chiesto di raddoppiarli nell’arco della giornata. Dovevamo arrivare a 22 posti, ma era tecnicamente impossibile. Potevamo usare un’altra ala del reparto, ma mancava l’aria compressa e senza quella non si possono attaccare i ventilatori. Erano le 14:30 quando è finita la riunione con la direzione e gli ingegneri. Mezz’ora dopo sono arrivati i tecnici e prima delle 19 era pronta una linea di bocchette a muro con l’aria compressa. Ho visto allestire una linea di terapia intensiva in un tempo impossibile. Fatta talmente bene che sembrava esserci da sempre, niente di precario, nessun tubo volante. Erano quattro anni che chiedevamo di fare migliorie nel reparto, li abbiamo avuti in quattro ore. Agiamo nell’emergenza, mai nella programmazione. Mi fa rabbia questo Paese incapace di fare le cose ordinarie, ma capace poi di miracoli». Anche i 22 posti vengono riempiti subito, con persone che arrivano da Lodi, da Cremona e da Bergamo, che ora è il luogo più drammatico.

Per combattere questa guerra il “Sacco” ha concentrato in Rianimazione 25 medici e gli infermieri sono passati da 30 a 60, ma ogni giorno aumenta il lavoro. «Si ragiona di fare un altro piano di terapia intensiva, ma fondamentali sono gli infermieri, senza di loro inutile chiamare i medici o mettere le linee per l’ossigeno, sono loro che fanno la differenza. Appena siamo partiti, sono venuti in massa, su base volontaria, tutti a combattere. In questi momenti, in tutti sta riemergendo fortissima la scelta originaria, la motivazione che ci ha fatto scegliere questo lavoro».

elena pagliarini
Elena Pagliarini, infermiera al Pronto soccorso dell’Ospedale Maggiore di Cremona, si addormenta stremata per il turno. La foto, pubblicata da “Nurse Times”, è diventata una delle immagini-simbolo dell’emergenza

E se poi saranno troppi i malati che hanno bisogno di terapia intensiva respiratoria, se i nuovi letti non basteranno più? Si continua a ripetere che il punto di rottura è vicino. «Ci si deve rifare alla regola fondamentale della buona medicina: la compassionevole proporzionalità delle cure. Questo non significa abbandonare alcuni malati, ma differenziare l’intensità delle cure. È molto importante che la Società italiana degli anestesisti e dei rianimatori abbia diffuso un documento con le raccomandazioni di etica clinica in condizioni eccezionali, come quelle in cui ci troviamo. Un documento sobrio e onesto che di fronte a risorse limitate ribadisce che “bisogna privilegiare la maggior speranza di vita”».

I suoi 22 pazienti, alcuni dei quali intubati a pancia in giù – una tecnica messa a punto a Milano dal gruppo dei professori Gattinoni e Pesenti e poi diffusa in tutto il mondo – sono completamente sedati. «Dormono tutti, non si ricorderanno del dolore. Quando verranno a trovarci con i pasticcini, perché è questo che ci dice l’esperienza del passato, ricorderanno solo la sete». Di quei primi quattro pazienti di Codogno – entrati meno di tre settimane, fa ma in un tempo che sembra lontano un secolo – uno è deceduto dopo tre giorni, due sono ancora lì che dormono attaccati alle macchine e uno è uscito dal reparto e respira da solo. La battaglia è ancora lunga.

Antonio Castelli (con la barba) al matrimonio di sua cugina

«Avevamo tutti la barba, ce la siamo tagliata quella mattina stessa per poter indossare le maschere più in sicurezza. Ma io, ogni giorno, nella chat su WhatsApp che abbiamo noi rianimatori, ripeto: ricordatevi sempre che riavremo le nostre barbe. Quando tutto sarà finito, perché tutto questo finirà, ce la faremo ricrescere».

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