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28 Gennaio 2022

Crescere ai margini

Le periferie delle grandi città diventano sempre più grandi e affollate di un’umanità interessante. Lo scrittore Jonathan Bazzi, che in una di queste periferie è nato e cresciuto, racconta in questa intervista che è diventata anche un podcast che cosa voglia dire cercare di rompere gli schemi di quel mondo omologato e, a modo suo, conformista. E come il futuro e le prospettive fioriscano solo dove c’è la differenza.
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«Sono cresciuto molto da solo, in un posto particolare, in una famiglia particolare, poco strutturata, dove molti pezzi primari sono mancati. Mi sono abituato presto a non dare troppa importanza ai giudizi degli altri, a non permettere che decidessero la mia strada.
Sono cresciuto in un posto dove le cose che amavo non avevano legittimità. L’unico modo per sopravvivere è stato quello di non curarmene. E cioè sapere che ci potevano essere cose di valore o interessanti che gli altri non vedono, a cui non credono, o che vengono svilite e derise». Per il bambino Jonathan quelle cose erano i libri, una biblioteca e l’idea che non ci fossero dei muri invalicabili tra le storie, i desideri e il modo di vivere dei maschi e delle femmine.

Lo scrittore Jonathan Bazzi
Lo scrittore Jonathan Bazzi

Quel bambino è cresciuto, oggi è uno scrittore di successo, ma quel nucleo di passioni, difficoltà e contrasti dell’infanzia sono ancora il motore del suo impegno e della sua scrittura. Jonathan Bazzi adesso ha 37 anni, sta per uscire il suo secondo romanzo (si intitola “Corpi minori”, lo pubblica Mondadori), ma quando l’ho incontrato durante le registrazioni della serie podcast “Un filo rosso” (la si può ascoltare qui) il nostro discorso è tornato alle origini, alla periferia dove è cresciuto e alla mia curiosità di capire quali sono i momenti che definiscono le nostre vite.  

Quando avevo letto “Febbre”, il suo romanzo d’esordio candidato al Premio Strega del 2020, l’avevo trovato non solo una straordinaria testimonianza autobiografica su che cosa voglia dire scoprirsi sieropositivi ai giorni nostri – a lui è accaduto a 31 anni nel 2016 -, ma anche il racconto molto preciso della periferia e della difficoltà di crescerci.

Per Bazzi la periferia è quella di Rozzano, estremo sud di Milano: poco più di 12 km quadrati, più di 43 mila abitanti. Anche nel suo nuovo romanzo, “Corpi minori”, in uscita il 9 febbraio, racconta, tra le altre cose, il movimento dalla periferia al centro della grande città.

“Febbre”, finalista al Premio Strega 2020, è il libro d’esordio di Jonathan Bazzi.
“Corpi minori” è invece il titolo del suo nuovo romanzo, in uscita in questi giorni con Mondadori

Jonathan è capace di tratteggiare come pochi quel margine, che non è solo un margine geografico, ma anche sociale, culturale. Il luogo in cui uscire dal canone, il canone che vige lì, non è quasi possibile. Alla fine dell’intervista che gli avevo fatto su Aids, sieropositività e virus, non abbiamo spento il microfono ma siamo andati avanti a parlare delle cose che amava da bambino, ma che per chi gli stava intorno non avevano nessun valore. Ne è nato un podcast che è la nuova puntata di Altre/Storie.

Ascolta l'ultimo episodio della mia serie Podcast Altre/Storie cliccando qui
Ascolta l’ultimo episodio della mia serie Podcast Altre/Storie cliccando qui

«I libri, lo studio, la cultura. Tutto ciò che, dove sono nato e dove sono rimasto per i primi 20 anni, non avevano uno spazio o, anzi, erano ridicolizzate, prese di mira. Cose che mi rendevano uno fuori posto». Ma riguardando indietro non ha rabbia, anzi arriva quasi a pensare che quella difficoltà gli abbia lasciato un’eredità positiva: «Forse se io fossi nato in un altro contesto o avessi avuto una famiglia più solida, i condizionamenti esterni sarebbero stati più forti per me. E quindi avrei magari fatto fatica a decidere io, a provare a dare un senso diverso rispetto a quello che era già disponibile a questo tratto della mia identità».

Il luogo della sua infanzia, il rifugio dalle difficoltà, la sua coperta di Linus è stata una biblioteca, un posto bellissimo in cui sono stato lo scorso anno a presentare un libro. È una vecchia cascina ristrutturata, con il porticato e grandi sale con il soffitto a volta, che un tempo ospitavano gli animali e il fieno, e che oggi ospitano i libri. 

«La biblioteca c’era già quand’ero bambino, però era più piccola, non si era ancora trasferita nella cascina dove è oggi. Ci stavo quasi sempre da solo perché mia nonna e mia zia, con cui vivevo – non abitavo con i miei genitori – mi accompagnavano ma poi mi lasciavano lì perché si annoiavano. Ricordo che passavo molto tempo a guardare i libri, a scegliere quelli da portarmi a casa, e ricordo questa fascinazione, questa ipnosi, nei confronti dei libri legati a figure femminili: Giovanna d’Arco, le streghe, tutta la collana “Gaia Junior” della Mondadori. Erano libri per ragazze, storie meravigliose. Io però non sempre riuscivo a portarli a casa, perché erano libri sbagliati, proibiti perché io ero un bambino. Erano gli anni Novanta, il bipolarismo era assolutamente la norma, qualsiasi sconfinamento poteva essere oggetto di sanzione, di messa alla berlina, divieto. Poi questa mia passione per il femminile è cresciuta con me, durante la prima adolescenza mi sono appassionato molto a Oriana Fallaci, ho letto tutti i suoi libri. Queste figure femminili che affiancavano quella di mia madre, che è stata una grande eroina della mia infanzia: quando le persone importanti sono lontane, le iper idealizziamo sempre». 

La biblioteca di Rozzano, nella cui sede originaria Jonathan veniva da bambino, è ospitata ora nella restaurata “Cascina Grande”, ex Cascina Zanoletti. 
pagina Facebook della Biblioteca di Rozzano)

Jonathan Bazzi non abita più a Rozzano, ma ci torna spesso perché la sua famiglia continua a vivere lì. E racconta che a quella realtà sociale già complessa, si è aggiunto un elemento di ulteriore complessità: l’immigrazione straniera che, negli ultimi anni, ha sostituito quella dal sud, su cui le periferie delle grandi città si sono formate, e la necessità di trovare nuove forme di convivenza. Ma pur con questo elemento di novità, la periferia continua a mantenere la sua caratteristica principale: l’omologazione.

«C’è tutto un territorio di relazioni che forse sono più ricche, e più diversificate rispetto a quello che possiamo pensare. E però credo che il nucleo, il cuore dei posti come quello in cui sono cresciuto io sia più o meno inalterato perché rimane questo elemento che fa parte appunto della stessa origine di quei luoghi, cioè di come sono stati pensati e come sono stati costruiti, cioè di riunire nello stesso punto del territorio, nello stesso punto del mondo, famiglie e persone con delle storie simili, troppo simili. E questo impedisce inevitabilmente la nascita di circoli virtuosi. E ancora oggi a Rozzano – che non è affatto un posto piccolo, perché ha quasi 44.000 abitanti – non c’è una libreria. Ce n’è solo una nel centro commerciale. Quando ero piccolo io – e ancora non c’era il centro commerciale – non ce n’era nessuna. Infatti, sono cresciuto proprio con questa identificazione tra Milano e i libri: per me andare in libreria significava andare a Milano».

Insieme a Jonathan Bazzi durante la registrazione dell'ultimo episodio della mia serie Podcast Altre/Storie
Insieme a Jonathan Bazzi durante la registrazione dell’ultimo episodio della mia serie Podcast Altre/Storie

Concludo la nostra conversazione chiedendo a Bazzi che cosa regalerebbe a Rozzano per cambiare il paradigma di cui è vittima. La risposta scontata sarebbe una libreria, ma ovviamente lui non me la dà. «Regalerei a Rozzano una minor omogeneità. Anche strutturale, edilizia. Il problema dei posti come Rozzano è il fatto che le persone che hanno una prospettiva, una storia e dei valori o disvalori simili siano tutte lì, tutte assieme. E che quindi si crea un microcosmo dove si coltivano delle prospettive che non sono reali, realistiche. Lo penso oggi, ma lo pensavo anche quando ci vivevo. Si ha una percezione del mondo e anche delle proprie possibilità che è più ristretta di quella reale, si pensa che alcune cose non si possano fare, che siamo molto distanti. Io invece ho sempre pensato che quello spazio potevo percorrerlo, che quel passo, quello spostamento potevo compierlo. E quindi le regalerei delle interruzioni, la smembrerei, o le introdurrei al suo interno degli elementi che arrivano da fuori. Perché questo manca lì. C’è un’omogeneità, un’uniformità asfissiante. Che almeno per me era asfissiante. Alcuni di quelli che ci vivono magari se ne rendono conto, molti no. Però quell’uniformità crea proprio una visione condivisa del mondo, degli spazi, delle possibilità, che non è, che non è realistica, non aiuta, che non promuove il cambiamento, il movimento, le trasformazioni».

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