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27 Agosto 2020

Franco, il cuore grande della montagna

Da alpinista e cooperante, Franco Perlotto ha avuto una vita ad alto tasso di rischio. Fino a quando un infarto lo ha indotto a cambiare ritmo e lavoro. Così, ha iniziato a gestire e ha riportato all’antico splendore il rifugio “Boccalatte” alle Grandes Jorasses, a Courmayeur. Adesso, però, la sua salute lo costringe a lasciare l’alta quota e quel luogo di pace. Almeno per il momento…
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Sulle pareti di legno spoglie del rifugio – a quota 2.803 metri sotto le Grandes Jorasses, uno dei gruppi montuosi più maestosi e simbolici dell’arco alpino – ci sono solo tre foto appese. Una è quella di Gabriele Boccalatte, alla cui memoria è dedicato il rifugio: fu tra i più brillanti alpinisti italiani fra le due guerre, amico e compagno di scalate di Giusto Gervasutti e Renato Chabod. Boccalatte perse la vita insieme a Mario Piolti nel 1938, travolto da una frana di sassi sulla parete Sud dell’Aiguille de Triolet, nel massiccio del Monte Bianco. L’altra foto è di Edoardo Cheney, storico gestore del rifugio fino al 1974. Una targa lo ricorda lungo il sentiero che da Planpincieux, sopra Courmayeur, sale verso il “Boccalatte”. Infine, all’ingresso della camerata campeggia un vecchio poster del Soccorso alpino e l’immagine di una cordata di alpinisti con scritto: «La montagna è severa».

Il rifugio “Gabriele Boccalatte e Mario Piolti” sotto il massiccio montuoso delle Grandes Jorasses, a Courmayeur (foto ©Archivio Cai Torino e Franco Perlotto)

L’attuale custode del “Boccalatte”, Franco Perlotto, origini venete, classe 1957, ha deciso di lasciare le tre fotografie lì dove sono, anche se sta sbaraccando tutto per far ritorno definitivamente a valle. Non gestirà più lui il rifugio. Il suo cuore, già provato da un infarto nel 2013, dopo cinque stagioni in quota non può più reggere quell’altitudine. Proprio oggi Franco chiuderà il rifugio e scenderà in Val Ferret.

Il “Boccalatte” non è certamente un posto tappa facilmente accessibile, il sentiero presenta difficoltà alpinistiche e deve essere percorso solo da chi ha una seria esperienza di montagna. È un nido d’aquila arroccato in mezzo a un ambiente glaciale che appartiene a un’altra era geologica. Affacciato su quel ghiacciaio di Planpincieux che ancora di recente ha creato allarme per il probabile distacco di una consistente massa di ghiaccio, sorge nello stesso luogo individuato nel 1864 dall’alpinista inglese Edward Whymper, primo salitore del Cervino, come base per raggiungere insieme alle sue guide la vetta delle Grandes Jorasses. Come ha scritto Enrico Camanni, storico dell’alpinismo, «la salita al “Boccalatte” è magnifica e ripidissima, tra larici, rododendri, cascate, pareti, morene, nevai e altre pareti, un imbuto all’incontrario che sale in cielo. Poco prima del cielo c’è la capanna, ancora degnissima dell’antico nome, ora di nuovo pulita e funzionante, agevolata da corde fisse. Sdraiati al sole sul balconcino si pensa che di lì sono passati tutti, prima o poi: Whymper, Almer e Croz dopo la prima salita delle Jorasses. Cassin dopo la Walker, Gervasutti dopo la parete Est, Bonatti e Desmaison dopo la Nord invernale».

La vista che si gode di notte dal rifugio “Boccalatte” sulla valle illuminata (foto ©Archivio Cai Torino e Franco Perlotto)

Franco Perlotto, con il sostegno della sezione del Club Alpino Italiano di Torino, ha riportato questo posto, dopo anni di chiusura, a essere di nuovo una base per molti alpinisti che sono tornati a frequentare zone ancora incontaminate del Monte Bianco. Dopo essere stato alpinista, scalatore, esploratore, scrittore, sindaco e cooperante, Franco ha cambiato vita scegliendo di gestire uno dei rifugi più eremitici delle Alpi. Una scelta presa in seguito all’infarto dal quale si era fortunatamente ripreso.

«Volevo una vita diversa – racconta adesso seduto a un tavolo di “4810” a Courmayeur, dove si noleggiano attrezzature da sci, nello stesso posto dove un tempo i Grivel forgiavano i famosi ramponi da ghiaccio – arrivavo dall’esperienza totalizzante della cooperazione internazionale, sempre in prima linea. In precedenza, avevo affrontato altri rischi, seppur differenti, in montagna. Facevo scalate estreme, slegato, ho aperto centinaia di vie salendo senza corda, il free solo degli anni Settanta ai massimi livelli dell’epoca; poi, dopo che ho cominciato un po’ a calare dal punto di vista tecnico e sono subentrati altri scalatori in scena, come Manolo, ad esempio, mi sono trovato un lavoro nel settore della cooperazione in diversi progetti umanitari. Sempre situazioni molto tirate, in Ruanda dopo l’eccidio, in Congo, Sud Sudan, Ciad, due anni in Palestina, quattro anni in Amazzonia con gli Indios, sono stato il coordinatore della sicurezza degli italiani per la ricostruzione post-tsunami in Sri Lanka, nell’area Tamil.

Quando ho avuto l’infarto stavo rientrando da una missione in Afghanistan. Da lì ho detto basta a quella pressione. La svolta è stata la montagna, il “Boccalatte”. Io sono un po’ umorale, dovevo andare avanti, perché se mi fermo, com’è successo nel lockdown, il morale va giù. La prospettiva di gestire quel rifugio mi garantiva ancora un’attività con ritmi serrati ma in un contesto calmo e meditativo. Il Cai Torino mi ha proposto questo piccolo posto ed è stata una soddisfazione enorme: alla fine, da un rifugio chiuso e abbandonato, neanche più bivacco, ho tirato su un rifugio che oggi è molto frequentato. Tanta gente viene apposta per trovare me, e questo mi rende orgoglioso. Ho conosciuto il top del top degli alpinisti mondiali in questi anni. Tanti delle nuove generazioni, come Federica Mingolla o Matteo della Bordella, che anche se sono molto più giovani di me hanno cercato uno scambio, è stato un ricostruirsi insieme, si è creato un legame molto bello».

Franco Perlotto, classe 1957, ex alpinista e cooperante, attuale gestore del rifugio “Boccalatte” alle Grandes Jorasses (foto ©Archivio Cai Torino e Franco Perlotto)

Il cuore grande di Franco, però, dopo questi ultimi anni passati in montagna sta mostrando un affaticamento. Niente di irreparabile, ma al “Boccalatte” non può più stare. «Il problema è peggiorato col tempo, i medici mi hanno detto che la permanenza in quota è la causa. Con la mia cardiopatia stare in rifugio per due mesi senza mai scendere è un rischio. Per questo ho deciso di chiudere e per l’anno prossimo vedremo che cosa faremo da grandi… Vedremo se, come mi consiglia il medico, scenderò di mille metri. Ne ho parlato con il Cai Torino, bisognerà capire che soluzione troveranno, a chi sarà affidata la gestione. I miei aiutanti sono stati bravissimi, volontari generosi, Sergio Piet Cattadori, Marco Binda, Gaetano Valle, Franz Rossi, senza di loro sarebbe stato un guaio quest’anno, con tutte le problematiche aggiuntive del Covid-19. Adesso stiamo sistemando tutto per chiudere».

Un’immagine di Franco Perlotto sotto le sue amate cime delle Grandes Jorasses (foto ©Archivio Cai Torino e Franco Perlotto)

Franco è un custode di rifugio esemplare, fornisce agli alpinisti e alle guide alpine informazioni precise sulle condizioni della montagna e sulle vie che in molti casi possono servire a evitare incidenti. «Spesso mi telefonano per chiedermi indicazioni utili per le ascensioni, ho la fortuna di parlare quattro lingue straniere e poi, avendo conosciuto e scalato molto queste montagne, so quali sono i punti dove si potrebbero creare maggiori problemi. Sotto il Reposoir ci sono dei buchi che si allargano verso fine stagione, oppure per la traversata del Couloir Whymper si formano ogni tanto delle lastre di ghiaccio nero, perciò agli alpinisti che scendono rivolgo sempre una domanda sulle condizioni di quel passaggio per poi trasmetterle ad altri.

È prevenzione del rischio. Sono montagne difficili. Chi vuole fare la cresta Ovest o la Nord delle Jorasses ha bisogno di informazioni il più possibile precise. Per questo sono in contatto costante sia con il Refuge de Leschaux in Francia, versante Chamonix, con cui ci mandiamo messaggi quando parte qualcuno o quando magari qualcuno non rientra, sia con il Rifugio Torino, con Armando Chanoine, che è un altro gestore che ha una grande passione. La sua struttura è enorme, ma nonostante tutto trova il tempo per raccogliere informazioni e passarle ai suoi ospiti, ci scriviamo tutti i giorni, si è creata una collaborazione che è una cosa dovuta, anche se non sempre è così».

Franco sorride ricordando che in questi cinque anni è riuscito anche a trasformare il “Boccalatte” nel Greenwich Village del Monte Bianco. «Di recente è passato lo scrittore francese Sylvain Tesson, l’autore di “Nelle foreste siberiane” e “Un’estate con Omero”. È sceso con la guida alpina Jean-Franck Charlet dopo aver percorso la via Cassin sulla parete Nord delle Grandes Jorasses. Purtroppo aveva fretta perché doveva tenere una conferenza in Francia la sera stessa e quindi gli ho organizzato un taxi da Planpincieux a Chamonix». Nella gestione del rifugio, però, lo stile del servizio è sempre stato abbastanza spartano, come impone l’ambiente e la struttura. «Nel menù offro poche scelte, non accetto chi esagera nelle richieste. Una pastasciutta, un secondo, non si viene al “Boccalatte” per farsi viziare. C’è il ghiacciaio di Planpincieux che brontola sotto e poi…la montagna è severa».

*Guido Andruetto è giornalista e scrittore. Collabora con “la Repubblica”; ha scritto per “Vogue”, “Rolling Stone”, “Gq” e “Wired”. Appassionato di montagna, il suo ultimo libro è “Fratelli e compagni di cordata. Alessio e Attilio Ollier. Storia di due guide alpine di Courmayeur” (Corbaccio, 2018).

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