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20 Gennaio 2022

La mappa della memoria

È quella che hanno disegnato Ilde Bottoli e Francesco Pinzi raggiungendo, con il loro camper, i luoghi dello sterminio nazifascista. Un viaggio lungo 10 anni fatto di silenzi e vuoti per fermare la rimozione e tenere viva la memoria
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Un viaggio della memoria lungo dieci anni: quattordici Paesi europei attraversati, 245mila chilometri percorsi, un vecchio camper, molti libri di storia, cartine, lettere e documenti. Ilde Bottoli e Francesco Pinzi, professoressa di italiano e storia lei, sindacalista lui, hanno dedicato le loro estati a costruire una mappa senza precedenti, per testimoniare la pagina più nera del Novecento. Dal loro viaggio è nato un libro dal titolo chiarissimo: “1933-1945. Lager Europa. Viaggio nel sistema concentrazionario nazifascista”.

Il Memoriale Bikernieki a Riga (© Francesco Pinzi)
Memoriale del campo francese a Montreuil – Bellay (© Francesco Pinzi)

Francesco e Ilde vivono a Cremona, per anni lui ha fotografato le manifestazioni sindacali, poi è andato in pensione e si è ammalato. Un tumore al polmone e la paura di non avere più molto tempo. Una frenesia che gli chiedeva di partire, tornare a fotografare e raccontare. Ilde, cresciuta con i racconti di suo padre, internato militare, in un campo di lavoro forzato in Germania, aveva ricevuto in eredità il filo forte della memoria. A metà degli Anni Novanta aveva cominciato a organizzare i viaggi per gli studenti nei luoghi della Shoah, ne aveva portati migliaia con sé, e aveva conquistato anche suo marito.
Così nella primavera del 2011 Francesco le disse che era urgente partire e fare quello di cui avevano sempre parlato: costruire un archivio per immagini e storie di quello che restava di quella galassia di campi di raccolta, transito, concentramento e sterminio che costituirono l’ossatura della soluzione finale. 
Si misero a studiare dove ci fossero stati campi e dove erano stati costruiti memoriali, scoprirono che c’erano più di 40mila punti sulla mappa d’Europa
Capirono subito che era un viaggio da fare con lentezza, per capire, fotografare e documentare. Scelsero come compagno di viaggio il loro vecchio camper: «Lo amiamo perché senza di lui questo lavoro non sarebbe stato possibile: ci ha permesso di fare tantissime scoperte lungo la strada, di fermarci dove volevamo, senza vincoli e senza orari, di seguire le storie che cercavamo. Ci ha regalato la libertà».

Ilde Bottoli e Francesco Pinzi davanti al Memoriale Natzweiler-Struthof (© Francesco Pinzi)
Il camper con cui Ilde e Francesco hanno attraversato l’Europa (© Francesco Pinzi)

All’inizio dell’estate partirono da Cremona e percorsero tutta la parte ovest della Germania, si fermarono in luoghi di grande dolore, passarono da Bochum dove il papà di Ilde era stato internato: «Calpestavamo una terra impastata con le ceneri di milioni di Europei, ma non cercavamo di documentare l’orrore, che non si vede più, spesso restano solo dei ruderi, qualche baracca, pali di recinzione, ma la solitudine, il silenzio, la dimenticanza. Non volevamo far finta di cogliere l’orrore, ma mostrare l’assenza di segni e di memoria. In questi anni siamo arrivati dove non va mai nessuno, come nelle foreste baltiche dove facevano le fucilazioni di massa e le vittime si dovevano scavare le fosse comuni».
A metà di quel primo viaggio avevano programmato di regalarsi giorni di vacanza e di serenità in mezzo ai fiordi ma arrivarono in Norvegia nel giorno sbagliato: il 22 luglio. Quel giorno, sull’isola di Utoya, la storia aveva riproposto la crudeltà dell’eliminazione mirata di 77 ragazze e ragazzi da parte di un giovane impregnato di idee neonaziste. «Il nostro viaggio si trasformò in un pellegrinaggio tra veglie, manifestazioni, funerali e rose rosse».

A Stavanger in Norvegia durante il funerale di una delle 77 persone della strage di Utoya (© Francesco Pinzi)

Si resero conto che il loro viaggio nella memoria era in realtà un viaggio nella rimozione, nella negazione di cosa fosse realmente accaduto, nella costruzione di una narrazione che rimuove le responsabilità e permette che crescano nostalgici della purezza della razza e nemici delle differenze. «Nei campi entrarono e morirono ebrei, sinti, rom, omosessuali, oppositori politici e militari nemici. Uomini, donne, anziani, bambini. Nella semplificazione della storia tutto questo sta scomparendo».
Estate dopo estate hanno continuato, fino a documentare 130 campi, che nel libro sono raccontati con 700 foto e molte schede: «Le testimonianze fanno parlare quelle rovine, danno un senso a quel vuoto che si vede oggi».

Il discorso sulla rimozione vede ai primi posti le Repubbliche baltiche e l’Italia: «Bisogna sfatare un mito, quello che i tedeschi non vogliano ricordare, invece, complessivamente in Germania hanno lavorato molto sulla memoria. Anche la Francia, che per molto tempo ha sorvolato sulle proprie responsabilità, grazie al presidente Chirac ha riconosciuto le colpe e le collaborazioni del regime di Vichy. Le foto del libro sono diventate una mostra permanente al museo della memoria di Récébédou vicino a Tolosa, in cui si conserva la memoria dei campi del sud della Francia. E a Pithiviers, nei pressi di Orleans, in uno dei campi dove portarono gli ebrei rastrellati a Parigi prima di consegnarli ai nazisti, hanno messo dei pannelli di pietra bianca su cui sono incise le liste con i nomi delle persone che salirono su ogni convoglio per Auschwitz e Sobibor».

A Pithiviers in Francia, una delle lapidi di pietra bianca con inciso l’elenco dei deportati ad Auschwitz (© Francesco Pinzi)

«Invece in Lituania e in Lettonia siamo rimasti colpiti dal disinteresse totale, dal silenzio, eppure gli eccidi furono spaventosi per crudeltà e entità. Ma quello che ci addolora di più è come in Italia si faccia fatica a riconoscere responsabilità e colpe. Eppure, gli esempi di collaborazione sono tantissimi, dai campi di transito come Fossoli, dove rinchiudevano gli ebrei, per poi mandarli nei campi di sterminio. A luoghi come Salsomaggiore, famosa per le terme, dove nella frazione Scipione Castello c’era il campo di raccolta degli ebrei della provincia di Parma, ma nessuna targa lo ricorda. A Visco, in provincia di Udine, dove c’era un campo di concentramento in alcune caserme militari, volevano fare un centro commerciale. A Laterina in Toscana c’era un campo per slavi, poi trasformato in un villaggio artigianale. È comprensibile la necessità di tornare a vivere, ma una targa sarebbe utile metterla. Ci sarebbe ancora molta strada da fare».
Alla fine del racconto di questo viaggio, cominciato quando Francesco temeva che il suo tempo fosse finito, lui mi dice con una voce forte e serena: «Sono ancora qui e, anche se il libro è finito, continueremo a partire ogni estate e se troveremo qualcosa lungo il percorso ci fermeremo a documentare. Lo faremo finché regge il camper e finché reggiamo noi».

Il libro “1933-1945. Lager Europa. Viaggio nel sistema concentrazionario nazifascista”, è possibile acquistarlo sul sito della Libreria Universitaria o sul sito dell’editore Cremona Produce

La mattina dopo la nostra chiacchierata, Ilde mi ha mandato un documento terribile e prezioso, il racconto che suo padre fece di una giornata nel campo di lavori forzati, una miniera di carbone, dove era stato internato.  
Enzio Bottoli, era stato catturato in Grecia dopo l’8 settembre del ’43. Era uno dei 600mila militari italiani che rifiutarono di aderire alla Repubblica Sociale. Aveva fatto parte della 28esima squadra panettieri, della guerra ricordava la miseria terribile, le code dei greci che aspettavano il pane. Finì schiavo in una miniera della Ruhr, che si chiamava “Costantino il Grande”. Doveva scendere ogni giorno a 900 metri di profondità, un’esperienza allucinante che vale la pena di essere ricordata. Per questo allego qui le pagine che scrisse di suo pugno e la trascrizione di Ilde, che ancora oggi si meraviglia per il fatto che lui sia riuscito a tornare, che sia sopravvissuto.

La prima pagina del diario della giornata di Enzio Bottoli in una miniera della Ruhr dove era stato internato, subito sotto la trascrizione integrale realizzata dalla figlia Ilde (© Ilde Bottoli)

Enzio Bottoli
Diario della prigionia
Germania: Vestfalia
                      Stalag VI° A
Arbeitlager N° 722
Iltroper – Bochum
Squadra dei 90
Kriegsgefangener 12218
(Prigioniero di guerra)

12 ottobre 1943
Un giorno di lavoro nella miniera di carbone N 4-5 Costantin der Gross

Ore 4,30

Sveglia al suono di un campanaccio e a colpi di nerbate sullo scheletrito corpo. Tempo di vestirsi e di lavarsi 15 minuti.
Ore 4,45
In fila nel corridoio della baracca per 4. Prima conta. Distribuzione di un l. di acqua sporcata con orzo macinato puzzolente di muffa.
Ore 5
Si esce all’aperto. Buio. Pioggia. NEVE –VENTO- FREDDO. IN FILA PER LA II CONTA. Riempimento boraccia con infuso di acqua Bollita con foglie di pianta grassa dal nome non conosciuto. Mostra di mezza razione di pane da consumarsi in miniera, chi risultava sprovvisto punizione di 10 colpi di scudiscio.
Ore 5,15
Trasferimento della squadra dei 90 davanti alla Baracca Comando – ATTESA minima ore 1.
Ore 6,15
Partenza della squadra dei 90 per il posto di lavoro. Distanza km 3,5 percorso a piedi, al Buio ! lanterna Rossa di testa e una di coda per distinguere il gruppo nella fitta nebbia.
Ore 7
Arrivo della squadra all’ingresso della miniera: passaggio obbligato per uno.
Avvicinarsi allo sportello della cabina d’ingresso e gridare ad alta voce il proprio numero di matricola in tedesco. Chi non lo sapeva pronunciare doveva lavorare una ora in più in galleria per evitare la punizione ci si associava, in modo che si arrangiava e qualcuno pronunciava il n° del malcapitato.
Ore 7,20
Ingresso allo spogliatoio: cambio d’abito con divisa di lavoro. (pag. 2 del manoscritto) Gli attaccapanni erano appesi al soffitto – altezza 5 metri – una catena portante il n° di matricola del prigioniero serviva per far scendere e salire il porta abiti.
Ore 7,30
Distribuzione lanterna accesa. Peso Kg. 4. Si sale in ascensore in gabbioni da 20 uomini. A carico ultimato si scende a 900 metri di profondità. Durante la discesa, uno scroscio di acqua calda salata ti inzuppa l’abito di lavoro, in modo che si arriva in profondità completamente bagnati. Si devono percorrere duecento metri di galleria centrale illuminata, indi si arriva all’inizio della galleria di estrazione, altezza massima dagli 80 cm. ad un m. di altezza,
Larghezza 1 m circa. All’ingresso un aguzzino ti aspetta e ti consegna un tronco di legno peso minimo kg. 20 lungo 2 m. che devi portare sul posto di estrazione.
Ore 8
Inizio lavoro: il rombo assordante delle perforatrici, della pala che porta il carbone ai carrelli, [il tutto funzionante ad aria compressa] il caldo soffocante, si lavora a torso nudo, la polvere di carbone si appicica al sudore, e ti fa diventare nero irriconoscibile. Dopo circa un’ora di lavoro, passa il sorvegliante: lo staior (Otto) denominato il boia con una potente lampada sulla fronte. Controllo della matrice della perforatrice che deve rispondere al numero di matricola peso Kg. 18 funzionamento ad aria compressa: delle due pale, della sega, dell’accetta e delle punte di ricambio. Con una grossa stecca di gesso ti assegna la lunghezza della galleria per lo scavo del carbone, minimo 10 metri ogni 3 – salvo la maggiorazione se il controllo non era stato perfetto. Si era costretti a lavorare in condizioni disumane ed in continuo pericolo di caduta massi, sprovvisti di elmetto, con la testa coperta da uno straccio fermato a nodi, uso elmetto di protezione, e fortunato chi lo possedeva.
Dopo 12 ore di lavoro forzato in profondità, dalle 8 del mattino alle 20 di sera, senza mangiare, si risaliva in superficie per la doccia. Lavati alla meglio l’un l’altro con un detersivo ricavato dal carbone. Attesa che tutta la squadra fosse pronta. In fila all’aperto per la conta ritorno all’arbeit lager. Altra conta davanti alla Baracca Comando. Distribuzione della sbobba: un litro a testa: composto: foglie di barbabietola, o rape da foraggio acide, o crauti marci, o bucce di zucca con relativi semi in brodo. Un filone di pane composto di tutto meno che dalla farina peso [kg 1] come il piombo ogni quattro, la razione una volta tagliato si riduceva ad una fettina: di [spessore cm 4 – lat 8×8] forma quadrata spessore cm.3 – lunghezza cm.10 larg. 6 cm una razione di margarina 30 gr una razione di una poltiglia, chiamata flais, di 30 gr. Il tutto ogni 24 ore.
Ore 22
Termine della giornata di lavoro
Ore 4,30
Di nuovo sveglia

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