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11 Febbraio 2021

Le stagioni del cinema

Lorenzo Ventavoli ha quasi 90 anni e tre passioni: i libri, il canottaggio, ma, soprattutto, il cinema. È stato produttore, distributore, sceneggiatore, attore. Ha portato lui in Italia l’essai e il multisala. Ora ripercorre la sua vita. E avverte: la pandemia cambierà per sempre il modo di vedere i film
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«Mia madre mi faceva sedere in prima fila poi andava ad aprire la cassa. La sala si riempiva di famiglie che venivano a vedere il doppio spettacolo domenicale, prima un western poi una commedia francese. Nelle prime file venivano mandati i bambini, un pericolo per il pubblico: chiacchieravano tutto il tempo, facevano scherzi, sottolineavano con grida e risate le scene dei film. La sala si riempiva talmente tanto che c’era sempre gente in piedi nei corridoi, accanto alle poltroncine. Negli intervalli si mangiavano i panini portati da casa, per i ragazzini c’era la brioche. Ricordo la nuvola di fumo delle sigarette che alla fine del pomeriggio creava una nebbia di fronte al grande schermo. Io non uscivo mai, quando cominciava il secondo spettacolo rivedevo il western. Stavo immerso nella mia poltroncina dalle due alle otto di sera. Era il 1938, avevo soltanto sei anni».

Lorenzo Ventavoli, quasi 90 anni, tutti vissuti nel cinema. Qui è in una sala del Nazionale di Torino (©Vanessa Vettorello)

Sono passati 83 anni ma Lorenzo Ventavoli, che si avvia ad entrare nella novantesima stagione della sua vita, è ancora lì, immerso in quel primo amore che non ha mai tradito. Ha fatto tutto nel mondo del cinema: l’esercente, il produttore, il distributore, il critico, lo storico, lo sceneggiatore e l’attore. Ha aperto il primo cinema d’essai d’Italia, alla fine degli anni Cinquanta, e la prima multisala. Lo incontro nel suo ufficio, tra manifesti di film famosi, premi, foto storiche, videocassette e montagne di libri e ritagli di giornali. Anche oggi, nel tempo fermo della pandemia, passa quasi ogni giorno a trovare le sue sale spente e silenziose.

La galleria del Teatro Colosseo, a Torino. L’immagine fa parte de “L’ultimo spettacolo”, progetto fotografico che vuole raccontare la realtà post Covid-19 di cinema e teatri, con le relative conseguenze psicologiche ed economiche. È uno spaccato storico, una documentazione sugli effetti a breve e lungo termine della pandemia e del lockdown sul settore culturale. Per cui, però, potrebbe aprirsi un’occasione di rinnovamento (©Vanessa Vettorello)

«È cominciato tutto con mio padre Giordano Bruno, impiegato alla fabbrica di automobili Itala. Prese in gestione, insieme a un collega, un piccolo cinema popolare che si chiamava Diana, dove si proiettavano le terze visioni. Con le mogli facevano i turni la sera e nei fine settimana. Anch’io, qualche anno dopo, venni messo a strappare i biglietti all’ingresso, ma appena cominciava la proiezione correvo dentro al mio posto. Dopo la guerra papà prese in gestione anche una seconda sala e poi una terza e diventò distributore. La mia strada era segnata. Ho studiato Legge e la mia tesi non poteva che essere sulla censura nel cinema».

Si laureò nel 1956, mentre faceva il militare: «Mi presentai alla discussione della tesi in divisa da sottotenente dei granatieri, ero appena arrivato da Roma dove facevo parte del picchetto d’onore del Quirinale. Non sapevo che il presidente della commissione di laurea fosse il professor Luigi Einaudi, che fino a pochi mesi prima era stato presidente della Repubblica. Quando mi vide gli prese un colpo e mi chiese conto della divisa. Ricevere la laurea dalle sue mani fu un onore immenso».

La sala 2 del Cinema Romano, a Torino, in ristrutturazione (©Vanessa Vettorello). L’autrice degli scatti e del progetto, Vanessa Vettorello, è nata nel 1985 ed è fotografa professionista. Attualmente vive a Torino, dove lavora nell’ambito della fotografia documentaria e collabora con l’agenzia di fotogiornalismo “Parallelozero”. Affianca il lavoro autoriale a quello editoriale per giornali nazionali e internazionali

Sono venuto a incontrare Ventavoli per chiedergli che futuro immagina per le sale e per i film, ma non ho tempo per fare domande, vengo travolto da un flusso di ricordi e di magia che mi incanta. Lorenzo è alto, dritto, ha le spalle larghe di chi ha remato per tutta la vita, l’ultima gara di canottaggio sul suo fiume, il Po, l’ha fatta a 85 anni. I suoi racconti mi confermano che il miglior modo per vivere è inseguire sogni e passioni. «Quando ho finito il servizio militare sono andato a lavorare con mio padre, ma ogni venerdì all’ora di pranzo prendevo il treno per Parigi, dopo cinque ore arrivavo alla Gare de Lyon e con la mia borsa correvo subito al cinema. Vedevo cinque film ogni fine settimana, tre nella sola giornata di sabato. Era il 1958, il periodo in cui nasceva la “Nouvelle Vague”, e io mi cibavo senza sosta di Truffaut, Godard ma anche di Louis Malle.

Il film della mia vita, ma anche il film che ha cambiato la mia vita, lo vidi in uno di quei sabati. Era “I quattrocento colpi” di Truffaut. La novità e la freschezza di quei bambini protagonisti della pellicola mi contagiò, pensai che quel modo di fare cinema doveva poter essere visto anche in Italia, che doveva esserci qualcos’altro oltre ai polpettoni e alle star di Hollywood. Convinsi mio padre a lasciarmi fare la programmazione del cinema Romano, che si trova nella Galleria Subalpina a Torino e allora aveva solo 400 posti. Era stato inaugurato da poco con un recital di poesia di Vittorio Gassman e io lo trasformai nella prima sala italiana dedicata al cinema d’autore e il Romano entrò nel circuito delle sale d’essai francesi. Il più grande successo di pubblico di quegli anni fu “Jules e Jim”, sempre di Truffaut, che fece il tutto esaurito ogni sera per ben tre mesi».

La sala 1 del Cinema Ambrosio, di proprietà della famiglia Troiano, a Torino (©Vanessa Vettorello)

Ma non bastava cercare i film per il proprio piccolo pubblico, così insieme ad alcuni amici fondò a metà degli anni Sessanta la “Medusa”, società di distribuzione e di produzione. Furono anni in cui girava per l’Europa a cercare pellicole, a comprarle quando erano ancora solo un’idea sulla carta. Andava da Praga a Londra e produsse anche un film di Luis Buñuel, “La via lattea”, nel 1969. «I giorni passati con il regista spagnolo sono indimenticabili. Alle sei del pomeriggio fermava il set e ci portava a prendere l’aperitivo, sempre il gin fizz, di cui aveva spiegato al barman la procedura esatta da seguire per prepararlo. Raccontava per ore le storie della sua giovinezza a Madrid finendo sempre con Salvador Dalì».

Gli anni Settanta sono quelli dell’amore per Woody Allen, proietta tutti i suoi film da “Prendi i soldi e scappa” a “Manhattan”. L’attore e regista newyorkese arrivò a Torino per un concerto al Teatro Regio con il suo clarinetto e poi a cena a casa di Lorenzo e della moglie Adriana. «Parlammo tutta la sera del cinema indipendente, della fatica che faceva a trovare i soldi per produrre ma alla fine cominciò a guardarsi in giro, vedevo che stava cercando qualcosa, poi mi chiese: “Ma non ci sono i babà?”. Gli spiegai che eravamo a Torino e non a Napoli. Lo incontrai di nuovo a New York, quando mi presentò Soon-Yi con cui era andato a vivere».

Sopra, Lorenzo Ventavoli (primo a sinistra) con il regista spagnolo Luis Buñuel (al centro) negli anni Sessanta; sotto, Ventavoli con Woody Allen e Soon-Yi Previn

Con la nascita delle televisioni private il mondo in cui Lorenzo era nato e cresciuto va in crisi, nella seconda metà dei Settanta crollano gli spettatori, chiudono migliaia di sale: «Fu un massacro, come già era successo vent’anni prima in America. Il moltiplicarsi dei canali televisivi e il passaggio dei film sul piccolo schermo decimò i cinema. Scomparvero tutte le sale di periferia e quelle dei paesi, stare in piedi diventò sempre più difficile. Cominciai a chiudere le sale costruite da mio padre, che si trasformarono in supermercati, discoteche e perfino parcheggi». Ma la salvezza viene ancora dall’osservazione di ciò che accadeva fuori dai nostri confini, dai viaggi a Londra, Parigi e negli Stati Uniti, dove vede i grandi cinema trasformarsi, dividersi in tante sale più piccole, dove poter offrire un numero maggiore di film. Lorenzo investe tutto nella costruzione della prima multisala italiana, l’Eliseo: «Fu la scommessa di una vita, se non avesse funzionato sarebbe stata la fine di tutto, invece è stata la mia fortuna».

Lorenzo Ventavoli non ha mai smesso di rimettersi in gioco, come quando accettò di esordire, a 68 anni, come attore in un film: «Andai a trovare Mimmo Calopresti mentre stava allestendo il set di “Preferisco il rumore del mare”, mi mise in mano la sceneggiatura e mi disse: “Prova a leggere queste battute”. Lo feci. Lui rimase in silenzio, poi disse: “Sei proprio un cane come attore, ma ho bisogno della tua faccia”. E così ebbi la parte». Poi arrivò un cameo nel “Divo” di Paolo Sorrentino.

L’entrata del Cinema Ambrosio (©Vanessa Vettorello)

Lorenzo si è ammalato di Covid-19 in forma leggera due volte, ad aprile e novembre, ma a preoccuparlo è quello che il virus ha fatto al cinema: «Da un anno le sale sono chiuse e quando abbiamo riaperto, a settembre e ottobre, non è venuto nessuno. Chissà se gli spettatori torneranno quando forse riapriremo a marzo. Il problema è che non ci sono film, quelli che erano pronti sono finiti tutti sulle piattaforme e gli unici che hanno scelto di aspettare, con un grande gesto d’amore per i cinema, sono Nanni Moretti e Carlo Verdone».

Ma il problema non è solo contingente, non è solo una sfida tra la voglia di socialità e la paura, ma è strutturale, anzi epocale. Lo sa bene Lorenzo che con questa sua passione ha contagiato il nipote che porta il suo nome e che lavora con lui. «Ormai i film li vedi dappertutto, perfino sul cellulare, certo sono esperienze totalmente diverse e non paragonabili, ma quando perdi l’abitudine e ti abitui invece a poter scegliere tra una lista infinita di film dal divano di casa tua… Ci sarà un altro cambiamento, a mio nipote dico che andare al cinema sarà come andare a teatro, non più un fenomeno popolare e di massa, ma un consumo per un’élite che sceglie di fare un’esperienza di qualità».

Il nipote di Lorenzo Ventavoli, che è esattamente omonimo del nonno e che lo ha seguito nel mestiere e nella passione per il cinema. Qui è seduto in sala al Romano (©Vanessa Vettorello)

Parliamo ormai da due ore e mezza, mi aveva premesso che avrei dovuto avere pazienza, che non ricorda i nomi e le date, invece è un fiume in piena e non ha dimenticato nulla. Gli chiedo del suo terzo amore, dopo il cinema e il canottaggio, i libri e in particolare Cesare Pavese. «Mio nonno, anche lui Lorenzo, era un muratore toscano che aveva fatto la terza elementare, ma nel 1921 venne eletto deputato per il Partito socialista. Scappò a Torino quando Mussolini prese il potere, per sfuggire ai pestaggi e alle bastonature. In un agguato lo buttarono giù dalle scale e per le fratture gli rimase una gamba più corta di due centimetri, lo ricordo che zoppicava. Passava le notti a leggere e appena imparai l’alfabeto mi mise un libro in mano. Aveva la casa piena di volumi, i corridoi erano occupati da pile di libri. Così, quando non ero al cinema leggevo.

Grazie agli scrittori ho conquistato mia moglie, abbiamo la stessa età, solo un mese di differenza. La notai sulle scale dell’università, sembrava una diva, fumava con un lungo bocchino. Era il 1951, sono passati esattamente settant’anni. Studiava Lettere, avrebbe fatto la professoressa alle scuole medie. Intorno a lei si era formato un capannello di ragazzi, uno le mise le mani addosso, lei si infastidì e allora io intervenni: “Sei matto? Come ti permetti?”. Quello reagì dicendomi di farmi i fatti miei e poi mi disse: “Ci vediamo fuori”. Uscimmo di corsa, con l’idea di fare a pugni. Andammo al Parco del Valentino, dietro al circolo canottieri dove remavo, la “Cerea”. Io lo avvisai: “Guarda che io sono più grosso di te, ti faccio un occhio nero. Ti consiglio di tornare e scusarti”. Lui invece mi sfidò a braccio di ferro. Vinsi. Allora si convinse ad andare a fare le scuse alla ragazza.

Da quel giorno cominciammo a vederci su una panchina fuori dall’università e io le raccontavo sempre dei miei scrittori preferiti, oltre a Pavese c’erano Fenoglio e Calvino e così nacque il nostro amore. Poco tempo fa mi ha detto: “Mi sei piaciuto perché eri l’unico che mi parlava di libri”. Non sarà un caso se il figlio che abbiamo messo al mondo, Bruno, da anni dirige l’inserto “Tuttolibri” della “Stampa”».

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