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22 Aprile 2021

Mare nero

Al Mennie per tutto l’inverno ha nuotato nell’Oceano, ogni notte. Lo ha fatto per sensibilizzare sul problema della depressione e per raccogliere fondi a favore delle piccole associazioni che se ne occupano e che, per colpa della pandemia, rischiavano di chiudere. Un gesto pratico, ma anche simbolico: in questi tempi incerti siamo tutti chiamati a sfidare le onde.
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Immaginate le onde dell’Oceano Atlantico che si frangono su una spiaggia della costa nord dell’Irlanda. Di fronte il mare aperto, oltre l’orizzonte soltanto le isole scozzesi del whisky.
Immaginate di essere lì in pieno inverno, con la sabbia ghiacciata che scricchiola sotto i piedi.
Immaginate che sia notte, il buio è totale e si sente soltanto il rumore del mare. Immaginate un uomo che si mette una muta e si tuffa tra le onde, per nuotare nella corrente, per sfidare i fantasmi e le paure.

Una foto ritratto di Al Mennie

La prima volta che Al Mennie è entrato in quelle acque aveva da poco imparato a camminare, a sei anni faceva sci d’acqua e a nove ha cominciato a surfare le onde. Era diverso dagli altri bambini, tanto che a scuola lo esonerarono da ogni sport lasciando che si concentrasse soltanto sulla sua passione: l’Oceano. Lo chiamavano “Il ragazzo dell’acqua”, a lui non interessava che fosse estate o inverno, che il mare fosse calmo o mosso o che splendesse il sole, a lui interessava solo che non ci fosse troppa gente sulla spiaggia di Castlerock, il suo paese, Contea di Londonderry, Irlanda del Nord.

Ma presto la baia non gli è bastata più: «Ho iniziato a cavalcare onde sempre più grandi e ho continuato per tutta la vita. A vent’anni ho comprato una barca, alcune mappe oceaniche e, nel bel mezzo dell’inverno, mi sono allontanato dalla costa per cercare onde giganti». Da quel momento non ha fatto altro, è stata una passione totale, che lo ha portato ad essere tra i pionieri che hanno sfidato le gigantesche onde di Nazare, in Portogallo, le più grandi del mondo. «Sono molto attratto dalle condizioni selvagge del mare, non ho bisogno che le onde siano perfette o immense, ma mi piace particolarmente l’energia e il caos del mare d’inverno».

Al Mennie e il suo cane Blyton puliscono la spiaggia dalla plastica e dalle reti, vero incubo del nuotatore

Oggi Al ha quarant’anni, una folta barba rossa e un grande amico: Blyton, un golden retriever di sette anni con cui divide la colazione, la cena e le noccioline al tramonto. Durante la pandemia la spiaggia del suo paese si è riempita di persone che avevano lasciato le città per rifugiarsi tra le scogliere erbose, punteggiate da castelli in rovina e pecore. E questo gli ha fatto scoprire il nuoto notturno. «Qui nell’Irlanda del nord abbiamo avuto un enorme flusso di turisti, così tanti che le spiagge si sono affollate tantissimo durante il giorno. Così io ho iniziato a venire al mare quando faceva buio, e non c’era più nessuno. Una liberazione: il mondo non poteva più vedermi e io non potevo più vedere il mondo. Nuotavo sulla mia tavola, cavalcavo qualche onda, andavo contro corrente cercando di non farmi travolgere. Dopo un po’ ho alzato il livello e ho iniziato a nuotare da una parte all’altra della baia. Mi sentivo sempre più a mio agio là fuori, nel mezzo del buio del nord Atlantico».

Poi, nella testa di Al, scatta qualcosa: «Ho realizzato che c’era una similitudine tra quello che stavo facendo io e quello che tutti noi stiamo vivendo oggi, con tutte le incognite della pandemia e i nuovi problemi attraverso i quali dobbiamo “nuotare”. Una sera, prima di andare alla spiaggia, mentre ero a casa con la televisione accesa, ho sentito l’appello di alcune associazioni di beneficenza in difficoltà per le poche donazioni ricevute». Erano organizzazioni che si occupavano di sostegno psicologico, che cercavano finanziamenti per dare assistenza a persone sprofondate nella depressione per la solitudine imposta dalla pandemia. Così Al ha pensato che le sue nuotate notturne potessero diventare un modo per raccogliere fondi e portando la similitudine ancora più avanti si è lanciato nel progetto “Swim Through Darkness”. Che cos’è la depressione se non dover nuotare in un’acqua scura piena di incognite?

Al Mennie nelle acque scure dell’Oceano Atlantico (credit Leigh Hawthorne)

Ha aperto un blog e ha deciso di nuotare per 100 chilometri durante i mesi più bui e più freddi dell’anno: dal primo dicembre 2020 fino al 28 febbraio scorso. Ogni notte si è messo la muta, è entrato in acqua, ha superato il punto in cui le onde si frangono e ha cominciato a nuotare parallelamente alla costa attraversando la baia. «Non ho avuto molto tempo per allenarmi. I servizi di sostegno psicologico stavano chiudendo: ho deciso di cominciare subito».
Ogni notte è stata diversa dalle altre: «Alcune sere riuscivo a fare un solo chilometro attraverso onde selvagge e scure, altre, invece, nuotavo per più di quattro. Sono stato in acqua da un minimo di 11 minuti ad oltre 2 ore».

Al Mennie mentre nuota di notte nell’Oceano Atlantico

Ho scoperto la storia di Al nella didascalia di una mappa su una bellissima rivista che si chiama “Sirene” (parla di storie di mare ed è stampata su carta prodotta con alghe infestanti della laguna di Venezia, su Instagram @sirenejournal), ho iniziato a seguirlo e, quando ha concluso la sua missione, mi sono messo in contatto con lui. Così abbiamo cominciato a scambiarci messaggi, poi a scriverci mail.

Qual è stato l’ostacolo più grande di questa tua avventura?
«L’inesorabile bisogno di andare avanti ogni notte è stata la parte più difficile: attraversare quella spiaggia, buttarsi in acqua, nuotare».

Hai mai avuto paura?
«Ogni notte. Il mare è una forza imprevedibile, anche per me che ho decenni di esperienza. L’esperienza ti prepara per l’ignoto, ma non può prevederlo. Tutte le volte che abbandonavo la riva, non sapevo quando sarei tornato».

Ci sono stati notti più difficili di altre?
«Quelle tranquille sono state senza dubbio le peggiori. Le correnti che si trovano sotto l’acqua calma sono imprevedibili, nuotavo con la paura che arrivasse un’onda improvvisa nel buio. Stavo in allerta, ascoltavo e cercavo di identificare il rumore di qualsiasi onda nascosta. Quando il mare era agitato, almeno sapevo che cosa aspettarmi. È un po’ come con le persone sincere e trasparenti: è più facile prevedere i loro comportamenti, mentre è più difficile con quelle che non lasciano intravedere i loro pensieri e sentimenti. Le notti buie e tranquille erano senza dubbio quelle che più mi preoccupavano».

Al Mennie sulla spiaggia della costa irlandese (credit Mark Millar)

Hai mai pensato di arrenderti e di abbandonare la sfida?
«Mai. Quando incomincio una cosa la porto a termine indipendentemente dalle condizioni. Ho trovato venti fortissimi, temperature bassissime, la spiaggia completamente imbiancata. Sulla scogliera, c’è una cascata che certe notti si ghiacciava. Avrei potuto trovare mille scuse per non nuotare, ma quegli elementi naturali ostili mi facevano sentire molto più vivo rispetto a come mi sentivo nelle notti in cui la luna piena che scintillava sulla superficie. Amo la natura selvaggia del nordatlantico e, a parte questo, abbandonare la sfida che mi ero imposto sarebbe stato come tradire tutti coloro che mi supportavano».

Ti sentivi solo in acqua?
«Sì, molto. Avevo iniziato a nuotare di notte proprio per poter stare da solo, ma con il passare del tempo hanno iniziato a sostenermi e a seguirmi sempre più persone per cui ogni volta che entravo nell’acqua sapevo che erano tutte con me e questo attenuava un po’ la mia solitudine».

Che cosa ti ha aiutato più di tutto?
«La routine. Mi toglievo la muta bagnata e la lasciavo ad asciugare sempre nello stesso posto insieme al resto della mia attrezzatura. Poi me la rimettevo sempre nella stessa identica maniera e appoggiavo i vestiti accanto al mio cane perché li sorvegliasse: Blyton restava tutto il tempo sulla spiaggia a fare la guardia. Poi quando tornavo, mi sedevo e mangiavo qualcosa insieme a lui».

A che ora entravi in acqua?
«Nuotavo tra le 7 di sera e mezzanotte. Preferivo iniziare il più tardi possibile per avere più probabilità di essere solo. Le routine che ho messo a punto per mettermi e togliermi la mia “tuta da battaglia” e le abitudini alimentari che ho adottato mi preparavano per le nuotate delle notti successive. Credo che la routine sia la chiave per qualsiasi sforzo di resistenza, sia nella vita di tutti i giorni che in altro».

Che cosa mangiavi, poi, quando tornavi a casa?
«Avevo una fame pazzesca, per prima cosa mangiavo una scodella di zuppa calda al pomodoro, poi dividevo un intero filone di pane con Blyton, che mi aveva aspettato come sempre sulla spiaggia, e bevevo un litro di latte».

Al fa colazione con Blyton (credit Sara O’Neill)

Questa esperienza che cosa ti ha insegnato su te stesso?
«Preferisco starmene da solo o in gruppi piccoli piuttosto che con tante persone. Mi piace l’anonimato che deriva dal nuotare al buio e la sensazione di libertà che lo accompagna. Ho imparato che l’amore che provo per il surf, in realtà, è amore per il mare. Ho scoperto che quando uno dei sensi è limitato, tutti gli altri si rafforzano. Ogni suono mi incuriosiva e il buio mi portava a chiedermi che cosa ci fosse in agguato. Sentivo il terrore dell’ignoto ogni notte ma quando devi fare una cosa, la devi fare e basta. Ho sempre trovato un modo per non desistere e giorno dopo giorno ho scoperto che la chiave era l’accettazione. Ho dovuto accettare il fatto che, per quanto mi sforzassi di vedere nel buio, non ci sarei riuscito. E ho iniziato a sentirmi molto a mio agio là fuori, nonostante l’ignoto».

Al Mennie che di notte esce dalle acque dell’Oceano Atlantico (credit Leigh Hawthorne)

Sei soddisfatto della somma di denaro che hai raccolto?
«Sì, molto. Mi sentivo a disagio nel fissare un obiettivo di tremila sterline durante una pandemia mentre tutti stavano facendo fatica con i soldi. La generosità delle persone però è stata incredibile, e adesso sto pianificando nuove iniziative per continuare a raccogliere fondi. Al momento siamo a poco più di 17mila sterline, quasi ventimila euro». (La raccolta è ancora aperta e si può donare qui)

Che progetto sosterrai?
«L’associazione di beneficenza si chiama AWARE. È un ente irlandese che si occupa della depressione. Ho scelto loro perché stavano chiudendo gli uffici a causa della pandemia e fanno attività di aiuto in rete per singole persone e per gruppi. Fanno veramente un bel lavoro».

Al Mennie, in borghese senza la muta da nuoto (credit Somerville bros.)

Quale sarà la tua prossima sfida?
«Sinceramente non lo so. In realtà non sono proprio uno a cui piacciono le sfide. So che sembra una cosa strano, perché chiaramente poi le affronto, ma solitamente non tendo a mettermi degli obiettivi difficili solo per il gusto di farlo. Scrivo libri, parlo a eventi pubblici, tengo dei workshop sull’autostima, rivolti soprattutto ai giovani e mi piacerebbe dedicare più tempo a questo».

Nel frattempo, mi racconta Al, lui e Blyton tornano ogni giorno in spiaggia a raccogliere la plastica e le reti che il mare restituisce, a pulire la baia, a coltivare il vento e il silenzio.

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