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17 Febbraio 2022

Per qualcuno non è ancora finita

Antonio Castelli è il responsabile della rianimazione dell’ospedale Sacco di Milano. È stata la prima persona che intervistai quando il Covid fece la sua comparsa in Italia. All’epoca del nostro primo incontro mi raccontò che aveva deciso di tagliarsi la barba che portava da trent’anni per poter indossare meglio la mascherina, convinto che sarebbe tornato a farsela crescere. Sono passati due anni e Antonio ha ancora la barba rasata ma ogni giorno, tra la stanchezza accumulata nel reparto di rianimazione e la sfiducia nei confronti di chi ancora si rifiuta di credere al virus e di vaccinarsi, nutre la speranza che presto tornerà a farsela crescere. Perché vorrà dire che tutto questo sarà veramente finito
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A due anni dalla nascita di questa newsletter sono tornato al punto di partenza, a un giorno e un tempo che a me sembrano lontanissimi: al momento in cui quel virus, che avrebbe cambiato le nostre vite in modo drammatico, fece la sua comparsa in Italia. Sono tornato dalla prima persona che intervistai, un uomo che stava andando a sciare quando una telefonata lo costrinse a fare inversione e tornare di corsa al suo ospedale. “Antonio, è arrivato anche da noi: vieni subito”. Erano le 7:40 del mattino di venerdì 21 febbraio. Antonio Castelli era il responsabile della rianimazione dell’ospedale Sacco di Milano. Per un attimo pensò che la vacanza sarebbe stata rinviata solo di qualche settimana, invece quegli sci li avrebbe ripresi in mano solo 22 mesi dopo, l’8 dicembre del 2021. In questi due anni le nostre vite sono state piene di fatica, di dolori, ferite, rinunce, ma ora abbiamo la sensazione di essere tornati a respirare, di vedere la luce. Per Antonio invece ogni ondata, ma soprattutto ogni giornata, è stata la ripetizione identica degli stessi gesti. Sono tornato da lui per non dimenticare chi è stato in trincea ogni giorno, perché all’inizio gli portavamo le pizze, gli facevamo gli applausi e i cori. Poi ce ne siamo dimenticati, ma loro sono rimasti lì a combattere e la vita si è fatta sempre più difficile, con l’amarezza delle incomprensioni, delle accuse e perfino degli insulti.

Antonio Castelli oggi con i segni della mascherina ancora ben visibili sul volto senza barba

Anche i segni sul volto di Antonio, che ora ha 58 anni e continua a guidare la rianimazione del Sacco, sono sempre gli stessi, solchi profondi che raccontano cosa succede ancora oggi nelle terapie intensive meglio di qualunque altra cosa. E purtroppo non c’è nessun segno di ricrescita di quella barba che aveva portato per trent’anni. «Avevamo tutti la barba – mi aveva raccontato due anni fa – ce la siamo tagliata la stessa mattina per poter indossare le mascherine più in sicurezza. Ma io, ogni giorno, nella chat su WhatsApp che abbiamo noi rianimatori ripeto: ricordatevi sempre che riavremo le nostre barbe. Quando tutto sarà finito, perché tutto questo finirà, ce la faremo ricrescere».

Anche i suoi riti di vestizione e di sicurezza sono sempre gli stessi, certo non dorme più sul divano, come ha fatto per i primi cento giorni, ma inviti a cena ancora non ne fa e la sua vita non è tanto cambiata.
«Mi sembra di aver fatto quattro percorsi circolari, sempre uguali. Ad ogni ondata quasi tutto si è ripetuto identico. I numeri sono lì a parlar chiaro, in due anni 13.600 persone sono state ricoverate nelle terapie intensive della regione Lombardia ma il tasso di mortalità non è cambiato molto. Ancora oggi muoiono di Covid quattro malati su dieci».

Di fronte a questi numeri mi dice di provare frustrazione, rabbia e stanchezza, perché la gran parte di queste morti potevano essere evitate: «Nel mio reparto il 70 per cento dei ricoverati non è vaccinato e metà di loro erano assolutamente sani, il restante 30 per cento è composto da vaccinati, in maggioranza con due dosi, ma con malattie croniche».
Quando ci sentiamo ha appena ricoverato un uomo di 74 anni, non vaccinato: «Purtroppo è gravissimo, non riusciremo a guarirlo. Al dolore per la possibile perdita di una vita si è aggiunta la discussione con il figlio che, quando gli ho elencato le terapie che avremmo tentato, ci ha accusati “di giocare con la vita degli altri”. Ogni volta resto allibito e non ho più parole». Il figlio come il padre ha scelto di non vaccinarsi e, anche nel momento drammatico in cui ha capito che il padre non ce l’avrebbe fatta, ha espresso la sua contrarietà per i vaccini.

«Non si riesce più a trovare un punto di contatto con i parenti ma anche con i malati. Ho stampato negli occhi quegli sguardi di negazione, assenti. Hanno in comune, a prescindere da età, istruzione, ceto sociale e storie personali, la paura della paura. Come i bambini piccoli che si svegliano di notte e nel buio perdono il senso della realtà e sono paralizzati dall’angoscia. Una parte di loro resta ferma sulle proprie idee, le rivendica fino all’ultimo, un’altra invece, soprattutto i più anziani “corre alle scialuppe”, si disperano per non essersi vaccinati e ripetono che si sono fidati di figli, amici o che glielo ha “consigliato Internet”».

Il ritratto di Antonio Castelli realizzato da Marta Signori

Sento la sua stanchezza e colgo un senso di sfiducia nell’essere umano, non lo nega: «Pensavo ne saremmo usciti migliori, che fosse una guerra e che i dopoguerra tirassero fuori il meglio delle energie. Invece devo constatare, ad ogni livello, che questa pandemia non ha migliorato l’uomo. Io, che sono uno scettico, mi ero detto: l’uomo mi stupirà. Invece vedo tanta superficialità, troppi egoismi di fronte a qualcosa che invece avrebbe dovuto unirci. Pensa che in Europa si è tornati a parlare di una guerra, dopo tutti questi morti si parla di guerra. Una cosa oscena. E pensare che solo in Italia è stata cancellata una città con tanti abitanti quanto Rimini». 

Penso a come ci siamo abituati ai numeri, leggiamo che sono morte 400 persone e non ci fa più impressione, eppure è come se ogni giorno deragliasse un Frecciarossa e non si salvasse nessuno. In quel caso saremmo tutti sconvolti.
In mezzo a questa fatica cerco una parola di speranza, gli chiedo di raccontarmi qualcosa di positivo, sorride e non si fa pregare: «Il primo paziente guarito che è venuto a trovarci mi ha detto che si ricordava la mia voce che lo rincuorava, quella di ognuno delle persone che lo avevano assistito. È stato molto commovente e di grande conforto e ho la sensazione che in fondo ho studiato tutta la vita per essere pronto ad affrontare questa sfida. Tutto quello che avevo fatto prima serviva solo ad essere preparato al momento più difficile. E poi ho dentro il senso di squadra: ricordo la seconda notte, quando alle quattro del mattino, insieme alla caposala con cui avevo lavorato nella rianimazione del professor Galli, siamo crollati addormentati sulle sedie nel corridoio fuori dal reparto. Era solo l’inizio».

Antonio Castelli in smoking e con la barba prima dell’inizio della pandemia

Riguardando una sua foto di “prima”, quando aveva la barba ed era andato a un matrimonio con il papillon, gli chiedo come vede il futuro: «Sappiamo che la variante Omicron è molto meno virulenta della Delta, tanto che dal 1 dicembre al 31 gennaio i pazienti più gravi che abbiamo ricoverato avevano per oltre il 90 per cento la Delta. Questo fa ben sperare, ma la battaglia non sarà vinta finché non avremo un antivirale (cioè un antibiotico contro il virus) e la massima copertura vaccinale nel mondo. Oggi ci sono 3 miliardi di vaccinati, meno della metà della popolazione del pianeta, e questo significa che il virus trova ancora tanto terreno vergine per propagarsi e mutare. Sono passati due anni, ma è ancora una corsa contro il tempo».

Ho capito che non è ancora il tempo dell’ottimismo per chi ogni giorno deve affrontare l’onda, ma io la speranza di essere invitato a cena a casa sua continuo a coltivarla. E sono sicuro che quella barba tornerà a crescere.

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