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3 Settembre 2020

Quando il diavolo si ruba l’ombra

L’artista concettuale Michael Asher è stato autore di opere controverse. Come parcheggiare una roulotte ogni dieci anni nello stesso posto o pretendere l’apertura continuata di un museo per una settimana. Per dimostrare, con la sua assenza, quant’è importante l’arte. Così, quello che non c’è è quello che ci manca
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Questa storia inizia con un avvertimento e un consiglio per quelli che sono convinti che tutta quell’arte che va sotto il nome di contemporanea sia una presa in giro e una truffa ai danni dello spettatore. Se appartenete a questo gruppo di persone smettete di leggere immediatamente. Questa è infatti la storia del più grande truffatore, secondo voi, che la storia dell’arte abbia mai potuto immaginare. Michael Asher. Un truffatore per tanti, un genio indiscusso per pochi. Eppure vi posso garantire che questo truffatore è anche un santo, uno che prendendoci in giro non ha fatto altro che dare dignità a noi spettatori.

Una delle opere dell’artista concettuale Michael Asher consisteva nel parcheggiare la stessa roulotte nella stessa strada della cittadina tedesca di Münster ogni dieci anni, in occasione di una mostra

Nel 2009, durante la preparazione della Biennale di Arte americana del Whitney Museum della quale ero il curatore, assieme al mio collega Gary Carrion-Murayari con una macchina presa in affitto guidammo verso uno di questi quartieri di Los Angeles tutti uguali con le case a un piano che sono praticamente delle roulotte senza ruote, tristi e fatiscenti dove una persona alta più di un metro e 70 batte la testa sul soffitto. In una di queste casette andavamo a trovare il protagonista di questa storia, Michael Asher, mito dell’arte concettuale, ovvero l’arte fatta appunto di concetti e non di ciccia, l’arte che se gestisse McDonald’s ti darebbe da mangiare un foglio battuto a macchina, possibilmente una Olivetti Lettera 22, con la descrizione dettagliata del maxi burger che hai ordinato e la carta impregnata con l’unto delle patatine fritte.

Gli artisti concettuali sono spesso cattivi, considerano qualsiasi espressione artistica tradizionale decadente. Incontrare Asher, il don Vito Corleone degli artisti concettuali, per invitarlo a partecipare alla nostra Biennale era quindi per noi una forma di suicidio professionale. Quando la porta si apre l’aspetto di Asher non è rassicurante. Il volto un po’ scavato, gli occhiali e il sorriso che è un ghigno lo fanno assomigliare a un morboso scienziato di un film di 007, di quelli che hanno inventato qualcosa che distruggerà il mondo. In effetti l’arte di Asher avrebbe il potenziale per distruggere il mondo dell’arte con le sue gallerie e i suoi musei. Tutta la sua filosofia artistica ha puntato a mettere in crisi il sistema dell’arte in modo passivo ma aggressivo. È stato un po’ il colonnello Kurtz di “Apocalypse Now”.

Io e il mio giovane amico Gary avremmo potuto essere quelli che erano stati mandati a toglierlo di mezzo, tentazione che entrando a casa sua ci era venuta anche per evitare che fosse lui a togliere di mezzo noi. Dentro la casa uno squallore profondo anziché pennelli e fascicoli simili a quelli di un ufficio dell’anagrafe di mezzo secolo fa. Ogni fascicolo un progetto, un’idea, una minaccia per chi l’arte la vede come un godimento e non come una punizione. Nel soggiorno con le finestre chiuse il bagliore perenne di una televisione accesa. A questo punto mi chiederete perché vi racconto questa storia e più che altro perché io e il mio collega stavamo perdendo il nostro tempo con una persona del genere. La risposta è semplice. Asher è l’antagonista indispensabile perché una storia funzioni.

La storia dell’arte senza antagonisti si sarebbe fermata alla fine dell’Ottocento, forse anche prima. Giotto, Masaccio, poi Michelangelo e Caravaggio e gli Impressionisti e poi Duchamp e oggi Cattelan o Hirst o Koons sono gli antagonisti che rendono la storia dell’arte viva e in movimento. Sono il male che ci fa godere il bello, la pioggia che ci fa desiderare il Sole, la morte che ci tiene attaccati alla vita. Ma non solo. La storia del mio incontro con Asher e il malefico fascino distruttore di cui era capace è quella di un viaggio al termine della inevitabile lunga notte dell’arte contemporanea. Una notte dove senza le tenebre di Asher non si potrebbe mai apprezzare la luce. In quella casupola deprimente io e Gary stavamo scoprendo il lato oscuro dell’arte e la ragione per cui l’arte, quella che la gente normale e comune cerca, esiste. Quelli che ho avvertito all’inizio di questo racconto di non continuare la lettura devono sapere che senza il loro odio per gente come Asher non potrebbero mai apprezzare la gioia che quella che loro chiamano arte dà.

L’artista concettuale Michael Asher, morto nel 2012 (ritratto di Marta Signori)

Ma in che consiste l’arte di Asher? Nell’alterare le nostre sensazioni e le nostre esperienze dentro gli spazi deputati per l’arte. Togliere una porta a un museo in modo che anche di notte tutti possano sbirciarci dentro. Ridurre la misura dei bocchettoni dell’aria condizionata in modo da alterare impercettibilmente il nostro modo di respirare e la temperatura dell’ambiente. Che succede al nostro cervello se mentre guardiamo un quadro di van Gogh abbiamo più caldo o respiriamo peggio? Cambierà la nostra esperienza spirituale davanti all’opera d’arte? Già prima che arrivasse lo tsunami dei social, Asher esplorava il mondo invisibile delle percezioni che accompagnano le nostre esperienze visive. Sadico ma geniale, Asher poneva degli interrogativi ai quali nessuno pensa più. Il niente della sua arte parlava di quel tutto che costituisce ognuna delle nostre esperienze nella realtà senza che noi nemmeno lo sappiamo.

Quando lo incontrammo, Asher aveva 67 anni, da 37 insegnava in quel santuario dell’arte concettuale che era il California Institute of the Arts, CalArts per gli adepti, a Santa Clarita, uno dei grandi sobborghi di Los Angeles. Ci fece accomodare nella sua cucina-archivio, ci offri un caffè americano scadente e ci chiese cosa volevamo da lui. Gli spiegammo che volevamo invitarlo alla Biennale del Whitney, dove in una mostra del 1969 il suo lavoro era consistito in un leggero getto d’aria che la gente attraversava fra una sala e l’altra. Non volevamo la stessa “opera”, anche se non sarebbe stata una richiesta bislacca, visto che uno dei “capolavori” della sua carriera consisteva nel parcheggiare la stessa vecchia roulotte Volkswagen in una strada della piccola cittadina di Münster nello stesso punto ogni volta, ogni dieci anni, in occasione della mostra di sculture pubbliche organizzata dalla città, appunto, ogni decade. Questo progetto è terminato quando la roulotte è stata rubata. La richiesta degli organizzatori di rimpiazzare il mezzo con un altro identico per modello e anno di costruzione fu considerata dall’artista assurda, come se avessero chiesto a un pittore di sostituire una tela rubata con una copia anche se dipinta dallo stesso autore.

Alla nostra richiesta Asher non si scompose. Ci fece presente che se avesse accettato l’invito alla Biennale avremmo dovuto accettare anche noi quello che ci proponeva senza discussioni. Un brivido ci corse lungo la schiena ma annuimmo. Lasciammo il nostro caffè nelle tazze senza averlo toccato, immaginando che lo avrebbe poi riscaldato e bevuto lui più tardi, lo salutammo rimanendo d’accordo che ci avrebbe comunicato la sua decisione con una telefonata. Aspettammo qualche giorno convinti che dopo una lunga meditazione ci avrebbe dato picche, un rifiuto che in cuor nostro forse avremmo accolto con piacere. La telefonata arrivò. Asher mi disse che avrebbe accettato l’invito con piacere, dopodiché m’illustrò l’opera che avrebbe mostrato, o meglio che avrebbe immaginato e che tutti gli altri avrebbero dovuto immaginare con lui.

Il museo avrebbe dovuto rimanere aperto durante la mostra della Biennale per una settimana 24 ore su 24. Tenere un museo aperto 24 ore su 24 è come far viaggiare un’auto per una settimana di fila senza mai fermarsi, con lo stesso autista. Anche i musei hanno bisogno di dormire. Tuttavia acconsentimmo senza discutere. Ci eravamo affezionati all’idea di avere il guru supremo dell’arte concettuale fra gli artisti della mostra, sarebbe stato motivo di orgoglio. Ai problemi che ci avrebbe creato il suo progetto ci avremmo pensato dopo. E i problemi puntualmente arrivarono. L’amministrazione del museo ci disse che un’idea del genere era irrealizzabile, il massimo che potevamo offrire all’artista erano 72 ore di apertura continua.

Il confronto con Asher non fu semplice. All’inizio rifiutò la proposta che il progetto potesse essere ridotto da una settimana a tre giorni. Ci chiese se potevamo immaginare di chiedere a Picasso di tagliare un paio di metri del suo dipinto “Guernica” perché la parete del museo era troppo piccola. Il bello di tutti gli artisti è che non importa cosa facciano o non facciano ma il loro punto di riferimento è sempre il quadro, la pittura. Non discutemmo e alla fine fu Asher stesso che acconsentì all’idea, a patto che in catalogo e in mostra ci fosse scritto chiaramente che l’opera veniva presentata non nella sua versione originaria ma tagliata per motivi indipendenti dalla volontà dell’artista. I tre giorni di Asher furono un grande successo, il popolo della notte di New York invase il museo. All’artista arrivò pure il premio di 100 mila dollari per la miglior opera in mostra. Due anni dopo Michael Asher moriva per un cancro che già si portava dietro durante la Biennale.

L’opera di Michael Asher per la Biennale del Whitney Museum del 2010 consisteva nell’apertura continuata del museo: nella targa si precisa che il limite di 72 ore è stato imposto all’artista dall’amministrazione

Aspetto adesso l’ultima domanda di chi ha avuto voglia di leggere questa storia. Qual è la morale di tutto questo? La morale è semplice, se una morale dev’esserci in ogni storia. E l’arte è una storia che segue le regole di tutte le storie. Ci vuole un protagonista, in questo caso l’arte stessa, e un antagonista, uno in lotta contro l’altro. Lo spettatore segue questa lotta che è anche la sua lotta, quella per riuscire a capire l’arte, qualunque essa sia.

Ma dentro questa semplice morale ce n’è un’altra legata di più al presente, alla pandemia, alla chiusura di tutti i musei, non per 24 ore ma per mesi. La pandemia è il lato oscuro della storia e della vita, come le opere di Asher che ci fanno sentire cosa ci manca, l’aria, la porta, il caldo: una volta aveva spostato tutti i termosifoni di un museo, una volta il ritmo degli orari nel caso del museo aperto in continuazione. Senza la follia dell’antagonista diventa impossibile afferrare la beatitudine che ci danno le nostre fortune, fra le quali anche quella di essere liberi di andare a vedere un semplice, inutile nello schema dell’universo, quadro. Asher è come il diavolo che porta via al signor Schlemihl la sua ombra nel romanzo di von Chamisso. Asher toglie una semplice porta da un museo ma solo quando la toglie, come l’ombra, ci rendiamo conto di quanto importante fosse e quanto ci manchi.

*Francesco Bonami è stato direttore della Biennale di Venezia del 2003 e curatore della Biennale del Whitney Museum del 2010; attualmente è direttore artistico di ByArtMatters in Hangzhou, in Cina, e membro del cda di Ges2 a Mosca: entrambe le istituzioni sono state progettate da Renzo Piano e Rpbw e apriranno nel 2021. Collabora con “la Repubblica” e il suo ultimo libro è “Post: l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità sociale” (Feltrinelli, 2019). Su Instagram, @thebonamist

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