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28 Aprile 2022

Un mondo di ciechi

Melissa Lucio doveva morire il 27 aprile scorso. Ma una revisione in extremis del suo caso ha momentaneamente sospeso la sua condanna a morte. Il giornalista Alessandro Milan, che sulla pena capitale ha scritto un libro, riflette sul senso di questa sanzione penale primitiva, che poggia le sue fondamenta su una domanda. Sbagliata
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Quando le hanno detto che la sua vita non sarebbe finita il 27 aprile, come invece era previsto, Melissa Lucio ha singhiozzato, poi si è presa il volto tra le mani e ha mormorato: “Dio, ti ringrazio”.

L’articolo a pagina 6 del Washington Post di martedì 26 aprile su Melissa Lucio

Melissa ha 53 anni ed è una mamma di 14 figli. Quel giorno, era il 25 aprile, quando noi in Italia festeggiamo la Liberazione, lei deve avere pensato che il destino per una volta non le si è ritorto contro, dopo un’infanzia segnata dagli abusi sessuali da parte del compagno di sua madre e un primo matrimonio costellato di violenze e altri abusi. Forse avrà anche pensato, mentre le comunicavano che lo Stato del Texas le stava allungando la vita, alla sua bimba più piccola, Mariah, morta nel febbraio del 2007 due giorni dopo essere caduta da una rampa di scale. Per quella tragedia, Melissa Lucio è stata accusata di infanticidio e condannata a morte. E se non fosse partita due anni fa una mobilitazione in suo favore, a quest’ora sarebbe già stata fatta adagiare su un lettino, il boia avrebbe cercato la vena del suo braccio, e lei avrebbe pronunciato le sue ultime parole che il giorno dopo sarebbero finite su un trafiletto di cronaca locale. Fine della storia. 

Invece, con una sentenza definita “strabiliante” per uno Stato forcaiolo come il Texas, si è deciso di dare ancora una possibilità ai suoi avvocati, e riaprire il caso. 
Melissa Lucio per anni ha gridato invano la sua innocenza, generando il solito cortocircuito che avviene in queste situazioni: chi è in cella sbraita, impreca contro il sistema, chi sta fuori osserva distratto, pensa che in fondo tutti i carcerati si proclamano innocenti e passa oltre. Sono come due rette parallele che non troveranno mai un punto di incontro. Il condannato che invoca a gran voce la sua umanità e parte della società che vede in lui o in lei non più un essere umano ma il reietto, la persona da punire.

L’ultimo libro di Alessandro Milan, “Un giorno lo dirò al mondo” edito da Mondadori, affronta il tema della pena di morte negli Stati Uniti attraverso il racconto del caso di Derek Barnabei condannato a morte il 14 settembre del 2000

Me lo spiegò bene una donna, una mamma come Melissa Lucio, tanti anni fa.  
Si chiamava Jane Barnabei e apparve in Italia nell’ottobre 1999 per implorare aiuto in nome del figlio, Derek, che languiva nel braccio della morte della Virginia, condannato per avere violentato e ucciso la ragazza che frequentava. Anche Derek, come Melissa Lucio, si proclamava vittima di un errore giudiziario. Anche Jane, come Melissa, era una mamma che sperava di salvare il figlio da una pratica, quella dell’uccisione di Stato, che l’Italia ha abolito per prima al mondo nello Statuto Leopoldino emanato il 30 novembre 1786. 
Io allora ascoltai le richieste di quella mamma e iniziai un viaggio nel caso Barnabei e nell’orrore della pena capitale negli Stati Uniti. Parlai per ore con Derek, lessi i suoi diari, andai a toccare con mano lo schifo dell’esecuzione il 14 settembre del 2000, fuori dal penitenziario di Jarratt. Da quell’esperienza, ma solo vent’anni più tardi per permettere al tempo di imporre una sorta di cesura emotiva, ne è nato un libro (“Un giorno lo dirò al mondo”, ed. Mondadori). 

E allora, come oggi, non mi sono mai posto il problema se Barnabei fosse davvero innocente, come si è proclamato fino a pochi secondi prima di morire sul lettino dell’iniezione letale, o colpevole. Mi sono invece chiesto se la sua morte avrebbe reso il mondo un luogo migliore. Mi sono chiesto se la sua esecuzione avrebbe riportato in vita la povera vittima, Sarah Wisnosky. Mi sono infine chiesto se la sua esecuzione avrebbe ridato ai genitori di Sarah un po’ di conforto per la perdita della figlia. E in tutti i casi la risposta è stata no

Così, non è fondamentale chiedersi se Melissa Lucio abbia o meno ucciso la sua figlia più piccola, nel febbraio del 2007. È più importante domandarsi se la punizione giusta debba essere per lei la morte, in caso di colpevolezza. Io non ho dubbi a riguardo, perché aveva ragione Gandhi: occhio per occhio e avremo un mondo di ciechi. 

*Alessandro Milan, classe 1970, giornalista e scrittore. Lavora dal 1999 a Radio24, dove conduce attualmente “Uno, nessuno, 100Milan” insieme a Leonardo Manera. Ha scritto tre libri, “Mi vivi dentro” (DeA Planeta), “Due milioni di baci” (DeA Planeta) e “Un giorno lo dirò al mondo” (Mondadori). È presidente dell’associazione culturale “Wondy Sono Io” che organizza il “Premio Wondy di letteratura resiliente”.

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