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25 Novembre 2022

Un nome nuovo per ricominciare

In Italia ci sono più di quaranta donne che sono fuggite da mariti violenti e appartenenti alle mafie. Vivono nascoste per sfuggire alla vendetta. Basterebbe una piccola modifica di legge per permettere loro di cambiare nome, smettere di avere paura e riappropriarsi della loro esistenza
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Da quattordici mesi Claudia vive libera ma nascosta, quando esce di casa cerca di parlare in giro il minimo indispensabile e si preoccupa di non lasciare tracce, i suoi due figli sono iscritti a scuola con un falso nome, non chiama mai i genitori e la sorella dal suo telefono, teme che la possano rintracciare. Claudia un anno e due mesi fa è scappata da un marito violento e criminale, lui la sta cercando e le ha promesso che la ammazzerà. Il marito è un camorrista, oggi è in carcere, ma il clan è sulle sue tracce ed è già riuscito a trovare dove vivono i genitori di Claudia e poi ha rintracciato la sorella. Anche loro avevano fatto la scelta estrema di abbandonare la casa e il lavoro e di andare a vivere lontani da Napoli, ma non è servito. L’hanno capito la mattina che nella casella della posta hanno trovato una lettera. L’aveva spedita quell’uomo dal carcere. Era la dimostrazione che l’ultima promessa fatta a Claudia era stata mantenuta: “Non te la potrai mai rifare, una vita, perché io ti darò sempre la caccia, per te sarà sempre un inferno. Ti troverò”.

Una mattina all’alba Claudia ha abbandonato Napoli con i suoi due figli, scegliendo di lasciarsi alle spalle la sua vita precedente e il marito violento

Claudia oggi sogna di diventare invisibile, ma questa non sarebbe la fantasia impossibile di una bambina ma una possibilità reale se il nostro Parlamento facesse una piccola modifica a una legge, quella che permette il cambio di generalità per i pentiti, i testimoni e i collaboratori di giustizia e estendesse la possibilità anche a chi abbandona un contesto mafioso. Claudia non è la sola, nella sua situazione ci sono almeno quaranta donne che sono scappate da mariti ‘ndranghetisti, mafiosi o camorristi. Molte di queste donne sono scappate per seguire i figli che i tribunali hanno allontanato dai contesti criminali dei padri, Claudia invece ha scelto di andarsene una mattina prima dell’alba.

Quella per dare a queste donne una nuova possibilità e proteggerle da violenza e vendette è una battaglia che da tempo portano avanti Libera, la rete di associazioni contro le mafie, e Don Luigi Ciotti. Insistono perché ci sia una nuova legge, sanno che non può essere utilizzata la legge ordinaria che permette il cambio di generalità, perché questa prevede che l’atto sia pubblicato nel comune del luogo di nascita e questo, evidentemente, renderebbe tutto inutile.

Claudia chiede soltanto un nome e un cognome nuovi ma non può essere una collaboratrice di giustizia o una testimone perché non è mai stata parte del sistema criminale. C’è un’avvocata che si è sempre occupata del tema, si chiama Vincenza Rando, nelle ultime elezioni è stata eletta senatrice e sta lavorando a un disegno di legge per permettere a queste donne una nuova vita: «Se i mariti riuscissero a trovarle le ammazzerebbero, perché andandosene hanno rotto la famiglia e scelto di stare dalla parte della legge e dello Stato. Hanno bisogno di una nuova identità per salvarsi la vita e per ricominciare a vivere, per lavorare e per far studiare i figli».

Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia assassinata dall’ex marito e boss della ’ndrangheta il 24 novembre 2009. (Creative Commons CC BY-SA 4.0 Internazionale – Wikimafia.it)

L’esempio più tragico di cosa accade alle donne che hanno il coraggio di abbandonare le famiglie criminali è la storia di Lea Garofalo, che, nel 2009, venne attirata in una trappola dal marito a Milano, rapita nei pressi dell’Arco della Pace e strangolata. Aveva solo 35 anni e il suo corpo venne bruciato in un campo vicino a Monza per non poterlo mai riconoscere. Cinque anni dopo, grazie a una collanina e a un pentito, i suoi resti vennero recuperati. Partecipai al funerale e portai sulle spalle la sua bara, era leggerissima, conteneva pochi resti di quella donna coraggiosa. Ha lasciato una figlia, Denise, di cui sarebbe molto orgogliosa.

Anche Claudia, che ha solo trent’anni, ha avuto il coraggio di voltare pagina, conosce i rischi che corre e vuole vedere i suoi figli diventare grandi. La sua scelta l’ha fatta dopo anni di umiliazioni, botte e terrore una domenica pomeriggio dello scorso autunno: «Stavo guardando la televisione, era accesa su “Domenica In”, quel giorno pensavo di farla finita, non vedevo futuro e nessuna speranza, poi sul video è passato in sovrimpressione il numero verde dei centri antiviolenza, il 15 22, e la scritta: “Anche se c’è l’emergenza Covid le case rifugio sono sempre aperte”. Mi è sembrato un segno, una risposta, l’occasione da non perdere. Da giorni guardavo mio figlio, che aveva cominciato a camminare e a parlare, e vedevo un bambino bellissimo che non aveva conosciuto ancora la violenza, che non sapeva nulla di quello che aveva inquinato e rovinato la vita di suo padre e la mia: ho scelto di scappare perché non voglio che diventasse anche lui un delinquente».

Il mio ultimo libro “Una volta sola”, edito da Mondadori

La storia di Claudia l’ho raccontata nel mio ultimo libro, partendo da quella mattina in cui si è ripresa la libertà che aveva perso sedici anni prima, quando ne aveva solo quattordici ed era solo una ragazzina che aveva scelto l’amore sbagliato. Quando era entrata nel tunnel di vivere con un camorrista che entra ed esce dal carcere, che le ha dettato ogni giorno le regole dell’esistenza: le cose che poteva fare, le cose che poteva dire, come doveva vestirsi, cosa poteva leggere e cosa guardare alla televisione.

Quando è arrivata la prima lettera ai suoi genitori, Claudia ha ricominciato a sentirsi braccata e ad avere paura. Ha pensato che una promessa l’aveva mantenuta davvero: quella di farla vivere nel terrore. «Ho come la sensazione che la mia, adesso, sia una corsa contro il tempo per non essere risucchiata dal passato, da quel mondo da cui sono riuscita a liberarmi. Vorrei poter fare un lavoro onesto, uno qualunque, per mantenermi, per ricostruire la mia dignità. Intanto vorrei diplomarmi perché avevo lasciato l’alberghiero dopo due anni e ora ho solo la terza media. Poi vorrei studiare psicologia, sogno di iscrivermi all’università insieme a mia figlia quando lei avrà finito le superiori. Sarà un percorso lungo, la costruzione di una nuova vita, ma di questo non ho paura. Però ho bisogno di una nuova identità, di un nuovo nome, di qualcosa che segni un prima e un dopo e mi permetta davvero di ricominciare».

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