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19 Maggio 2022

Una mattina, poco prima dell’alba

Paolo Pellegrin, reporter di guerra, ha deciso di raccontare il conflitto più difficile, quello tra l’uomo e il pianeta che lo ospita. I tanti viaggi per raccogliere la fragilità della Terra sono diventati una mostra, quella che ha inaugurato un nuovo museo: le Gallerie d’Italia di Torino. Visitarla vuol dire cogliere qualcosa che forse nessuna foto riesce esattamente a catturare: che la nostra casa è sacra
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Pioveva ininterrottamente da una settimana sulla costa della Danimarca, di fronte al Mare del Nord. Paolo era inzuppato, erano giorni che stava fermo per ore in una specie di acquitrino fangoso aspettando il passaggio degli uccelli che ogni anno, alla fine della primavera e all’inizio dell’autunno, riempiono il cielo disegnando geometrie perfette. Aveva scelto quel luogo per dare un volto concreto al concetto dell’aria, per fotografare il “Sort Sol”, il fenomeno del “Sole Nero”: la migrazione di un milione di rondini tra il sud Europa e la Scandinavia. Anche quel giorno non se ne erano viste, tornando verso la macchina incontrò un gruppo di uomini con dei binocoli, sconfortato chiese loro consiglio: “Qual è il posto migliore per vedere il passaggio delle rondini?”. Pensava che forse qualche decina di chilometri più a est avrebbe avuto maggior fortuna. Gli uomini ci pensarono un po’ e poi uno di loro rispose serio: “Roma. Dovrebbe andare là, non ho mai visto tanti uccelli nel cielo come a Roma…”. Il romano Paolo Pellegrin non ebbe il coraggio di aggiungere nulla.

Riserva della Foresta Nebulosa di Monteverde, Costa Rica, 2022 (©Paolo Pellegrin/Magnum Photos)

La fotografia è pazienza. Paolo è stato sei settimane in Ucraina per un solo servizio fotografico per il magazine del New York Times perché per fare bene un lavoro ci vuole tempo, solo così si creano documenti e testimonianze. Parla a fatica di quello che ha visto: fosse comuni, luoghi di tortura, civili morti per strada con le mani legate dietro la schiena. «Quando sono tornato in Italia e ho acceso la televisione sono rimasto sgomento, non potevo immaginare di ascoltare tanta propaganda, tanta negazione, tante giustificazioni». Eppure, di guerre ne ha raccontate tante, dall’Iraq al Libano, dall’Afghanistan alla Siria: «I russi non fanno distinzione tra civili e militari, colpiscono qualsiasi cosa, così non ti puoi aggrappare ad una logica, sei in balia di cose che sono fuori da ogni comprensione». 

Mi aveva chiesto di accompagnarlo nell’ultima tappa del viaggio, proprio in Ucraina, quando ancora ci illudevamo che le truppe russe ai confini fossero solo uno sfoggio di forza e non il dispiegamento per l’invasione. «Volevo chiudere questo lavoro a Chernobyl, sintesi dello scontro tra uomo e ambiente, uno dei luoghi dove la natura si è ripresa il suo spazio. È un esempio di come, in assenza dell’essere umano, la natura sia capace di rimpossessarsi delle cose che noi abbiamo costruito. Ma l’uomo è tornato e lo ha fatto con la violenza». Proprio nel giorno in cui avevamo programmato di incontrarci là, sono arrivati invece i carri armati con la “Z” dipinta sulle fiancate.

Ci vediamo, invece, nel nuovo museo che ha inaugurato questa settimana proprio con le sue foto: le Gallerie d’Italia di Torino. Le immagini ai muri non parlano il linguaggio della guerra ma hanno una forza che non è da meno. È il racconto di un viaggio nella Natura, nel cambiamento climatico, nella “fragile meraviglia” che è il nostro pianeta.
Come Paolo Pellegrin abbia percorso il mondo in questi ultimi anni, tra i reportage della cronaca e tra le guerre, lo racconto nel catalogo che accompagna la mostra e in un podcast che abbiamo registrato insieme che si può ascoltare visitando il museo. Lo ha fatto prima di tutto come padre, spinto dalla preoccupazione per il futuro delle sue figlie perché «anche il cambiamento climatico è un conflitto, di cui dobbiamo avere piena consapevolezza e che ci dobbiamo ingegnare a risolvere».

Sonoyta, Sonora. Messico, 2019 (©Paolo Pellegrin/Magnum Photos)
Parco Nazionale di Etosha, Namibia, 2022 (©Paolo Pellegrin/Magnum Photos)

Ci conosciamo ormai da tanti anni, ho perso il conto delle interviste che gli ho fatto, ma come vede il mondo è una cosa che continua a stupirmi. E questa cosa della pazienza in particolare. La pazienza di aspettare di cogliere un attimo speciale, qualcosa che contenga mistero, che sia capace di offrire una domanda, di interrogare. Spesso sono giornate intere passate in attesa che succeda qualcosa, che ogni elemento vada al suo posto. 
«La pazienza non la deve avere solo il fotografo ma anche chi guarda: a una mostra, o sfogliando un libro, bisogna regalarsi tempo, fermarsi ad osservare, lasciarsi contaminare». La prima volta che ci siamo incontrati mi aveva spiegato che la cosa che gli interessa di più «è una fotografia non finita, dove chi guarda ha la possibilità di cominciare un proprio dialogo». 

Questo suo viaggio è cominciato alla fine del 2017 – pochi mesi dopo aver raccontato la battaglia di Mosul tra i Peshmerga curdi e i miliziani dell’Isis – quando Paolo salì su un vecchio aereo militare Orion P3, un caccia sottomarini che ha un’autonomia di più di quindici ore di volo. Decollò da Punta Arenas, all’estremità meridionale del Cile, per dirigersi verso qualcosa che non aveva mai visto. Verso l’assenza di rumore, verso spazi dove non c’erano combattimenti, esplosioni, incendi, soldati, polvere e sangue. «Quel giorno, volando sopra i ghiacci dell’Antartide, mi trovai di fronte all’assoluta bellezza, a qualcosa che mi parlava di eternità». Per giorni, il rito si ripeté identico, un’intera giornata in volo con la missione della Nasa che doveva monitorare l’estensione dei ghiacci polari e il loro spessore. Paolo sorvolava distese infinite dove l’uomo era assente, ma il suo sguardo incollato all’oblò cercava proprio le conseguenze della mano umana.

Non ha più smesso di collezionare indizi e prove, di ritrarre disastri ma anche bellezza, e continuerà a farlo, anche oltre questa mostra che lo ha portato dall’Australia all’Islanda, dalla Costa Rica alle isole Svalbard passando per la Namibia, la Danimarca, il Messico, il Congo (dove ha seguito per giorni la vita di un grande gorilla e lo ha fotografato quando, dopo aver mangiato per ore, si era addormentato tranquillo).

Vulcano Fagradalsfjall, penisola di Reykjanes. Islanda, 2021 (©Paolo Pellegrin/Magnum Photos)
Baia di Disko, Ilulissat. Groenlandia, 2021 (©Paolo Pellegrin/Magnum Photos)

Il percorso del viaggio è costruito intorno ai quattro elementi fondamentali della natura – aria, acqua, terra e fuoco –, ma usati come archetipi, non in maniera didascalica. È stato in Groenlandia, nella baia di Disko dove i ghiacciai si spezzano riempiendo l’acqua di iceberg, di fronte al mare in tempesta in Islanda, preoccupato di contare le serie delle onde, conscio che c’è sempre un’onda anomala che ti sorprende, sull’Etna in ebollizione e di fronte al vulcano Fagradalsfjall, che dormiva da ottocento anni. Si è fatto contaminare dal mistero della forza degli elementi, alla ricerca dei «momenti perfetti in cui le cose sembrano allinearsi». «Mi è successo spesso poco prima dell’alba, una folata di vento, una nebbia improvvisa, momenti in cui ho avuto la sensazione di cogliere il mistero di questa natura in trasformazione. La sua bellezza, la sua fragilità, la percezione di qualcosa che va oltre ogni cosail sacro».

Paolo Pellegrin osserva uno degli scatti simbolo della sua mostra “La fragile meraviglia. Un viaggio nella natura che cambia”

Il sacro è l’equilibrio perfetto: «Ci sono questi momenti in cui avverti una cosa, va al di là di quello che ti spieghi. Una notte in Namibia, in uno dei deserti più antichi del mondo, esiste da 80 milioni di anni e ha una piccola foresta di alberi morti, tutti neri ma ancora eretti, ho aspettato l’alba sotto le stelle. Le iene ululavano, c’era nebbia e prima che il sole sorgesse, quando si iniziava a intravedere ho sentito qualcosa di più grande di me. Ho scattato. La fotografia ce l’ha fatta a restituire quello che vedevo? Non lo so, ma io ci ho provato e basterebbe rendere anche solo una piccola parte di quel mistero, di quel senso di sacro, per aver dato un senso a questo lavoro». Era salito il vento, solo gli uccelli erano in volo, le zebre si erano fermate immobili e uno struzzo si era girato a guardarlo.

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