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1 Luglio 2021

Vi racconto l’Africa

Nel 1961 Piero Corti e Lucille Teasdale, due medici visionari, iniziarono a trasformare un piccolo presidio sanitario in quello che sarebbe diventato uno dei più grandi ospedali dell’Africa subsahariana, il Lacor Hospital. Oggi la loro figlia Dominique Atim Corti è tornata proprio in Africa per aiutare la popolazione colpita dal Covid ma la sua preoccupazione è un’altra. Mi ha raccontato la storia dell’ospedale, le sfide affrontate e gli effetti della pandemia, invisibili per noi occidentali
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«Mi chiamo Atim, che in lingua acioli significa “nata nella prateria” ma nel mio caso vuole dire nata fuori casa, lontana dall’Italia. Era la fine del 1962 e l’Uganda aveva appena ottenuto l’indipendenza, i miei genitori da un anno avevano preso la gestione dell’ospedale di Gulu, il luogo dove sarei cresciuta. La mia prima lingua è proprio l’acioli e quando qualcuno mi ascolta parlare rimane basito a sentire quel suono uscire dalla bocca di una donna bianca e bionda. L’ospedale è stato la mia casa, a 14 anni ho cominciato a fare la ferrista in sala operatoria per aiutare mia madre ed era destino che diventassi medico anch’io». Dominique Atim Corti mi parla via Zoom dall’Uganda, è tornata quando tutti quelli che potevano se ne sono andati, nel momento in cui la pandemia di Covid ha deciso di prendersi anche l’Africa. Questione di geni di famiglia: ha fatto esattamente come suo padre, che tornò di corsa quando l’ospedale venne investito dall’epidemia di Ebola alla fine del 2000. I suoi genitori si chiamavano Piero Corti e Lucille Teasdale, brianzolo lui, canadese lei, medici visionari e coraggiosi che trasformarono un piccolo presidio sanitario dei missionari comboniani in uno dei più grandi ospedali dell’Africa subsahariana, il Lacor (si pronuncia: “lacior”) capace di curare 250mila persone all’anno, per l’ottanta per cento donne e bambini.

Il St. Mary’s Lacor Hospital (credits: Fondazione Corti)

Ho cercato Dominique Atim dopo aver letto la sua ultima mail, in cui raccontava del lockdown totale in cui l’Uganda è entrata a giugno e delle conseguenze visibili e invisibili del Covid in Africa. Tra queste il ritorno del morbillo, un boom di gravidanze di adolescenti e un’impennata delle morti di madri e neonati durante il parto. Oltre a tutto ciò che abbiamo sperimentato anche noi: isolamento, chiusura di scuole, mercati e negozi e crisi economica. 
Ma Dominique non ha toni apocalittici, non si lascia prendere dallo sconforto e nel “suo” ospedale (oggi interamente gestito da medici africani) si produce ossigeno a ritmi serrati, in un paese in cui le terapie intensive sostanzialmente non esistono e i pochi ospedali privati arrivano a chiedere mille euro al giorno per far respirare chi non ce la fa più. Il motto di suo padre è l’unica guida: «Offrire le migliori cure possibili al maggior numero di persone e al minor costo, garantendo assistenza medica ai più vulnerabili senza discriminazioni di sesso, razza, stato sociale». Così al Lacor la cifra massima richiesta a chi se lo può permettere è di 23 euro.
La forza che c’è nella voce sempre positiva di Dominique Atim è figlia di tutto ciò che hanno visto lei e l’ospedale negli ultimi cinquant’anni. Mi chiede se ho tempo e, siccome la connessione non fa capricci, per un’ora e mezza mi racconta la storia delle sfide che hanno dovuto superare, dalle guerre all’Aids, che si è portato via la sua mamma.

Dominique Atim Corti (credits: Fondazione Corti)

Va indietro fino alla dittatura di Idi Amin Dada, alla guerra con la Tanzania del 1979, all’esercito ugandese in rotta e in fuga verso nord che saccheggiava ogni casa e ogni villaggio e fece lo stesso con l’ospedale: «Mentre la mamma operava uno dei militari, papà veniva picchiato, gli ruppero un timpano. Ricevette anche una sventagliata di mitra ma si salvò per miracolo». 
Poi vennero gli anni della guerriglia, la razzia era continua, finché nel 1989 venne rapito Matthew, il medico più promettente, quello che doveva prendere il posto dei coniugi Corti. «Mio padre prese la decisione più dolorosa: chiudiamo e andiamo via. Allora gli anziani di tutti i villaggi parlarono con i guerriglieri e dissero: il Lacor non si può toccare, è l’unico ospedale che abbiamo. Da allora è diventato una sorta di luogo inviolabile». Tanto che negli anni in cui a seminare il terrore in queste zone era l’Esercito di Resistenza del Signore, guidato dal fanatico Joseph Kony, l’ospedale divenne rifugio ogni notte per migliaia di bambini. «Arrivavano in processione prima del tramonto con i loro averi in testa e una stuoia e si assiepavano nelle verande, sotto gli alberi, nei cespugli. Facevano decine di chilometri a piedi per sfuggire ai miliziani di Kony che facevano razzia dei più piccoli per trasformarli in soldati (questa storia è raccontata nel libro di Mariapia Bonanate, “I bambini della notte”). Una migrazione quotidiana che è andata avanti per quasi dieci anni. Ricordo ancora il rumore della folla di bambini che usciva all’alba».

I bambini in fuga dai miliziani cercano rifugio nell’ospedale (credits: Fondazione Corti)

Prima però c’era stato l’arrivo dell’Aids: «Non si sapeva cosa fosse ma oggi sappiamo che è partita da questa zona del mondo. Allora, era il 1979, veniva chiamata “la malattia dei camionisti”, dimagrivano a vista d’occhio, non avevano difese immunitarie e non funzionava nessuna cura. Nel 1983 mio padre portò dei campioni di sangue in Italia per farli analizzare all’Istituto Superiore di Sanità (questo episodio è ricordato da Donato Greco nel suo libro appena pubblicato “Le mie epidemie”) senza che si capisse quale fosse il problema. Ma vennero congelati e conservati e così anni dopo si è potuto ricostruire che era HIV. Mia madre, in una delle tante operazioni o forse in molte, quando interveniva sui camionisti feriti negli incidenti e si tagliava in continuazione, si infettò. All’inizio degli Anni Ottanta aveva già le malattie tipiche da immunodepressa, finché nel 1985 a Londra arrivò la diagnosi. Ero con lei e quando uscimmo dallo studio del medico mi portò a fare un giro della città su uno degli autobus rossi a due piani. Ricordo che ad un certo punto mi disse, con l’innocenza di una bambina: “Ho sperato fino all’ultimo che mi dicessero di no, che non avevo questa nuova malattia”. Non aggiunse altro e tornò ad operare, a salvare vite. Prendeva tutte le precauzioni per non infettare ma non riusciva a tirarsi indietro quando vedeva qualcuno che se lei non fosse intervenuta sarebbe morto. Ancora negli ultimi mesi di vita stava alle spalle dei giovani chirurghi ugandesi per consigliarli. È sepolta qui».

Lucille Teasdale e Piero Corti (credits: Fondazione Corti)

Nell’ottobre del 2000 due studenti della scuola infermieri, un maschio e una femmina, in perfetta salute, morirono improvvisamente dopo una breve malattia febbrile. «Si pensava a malaria cerebrale o meningite, poi Matthew Lukwiya, il nostro campione, studiò le cartelle e capì che era febbre emorragica virale, probabilmente Ebola. Mandò i campioni di sangue in Sudafrica ed ebbe la conferma. Avvisò il “Centers for disease control” di Atlanta che stava partendo un’epidemia e poi mio padre che era in Canada e tornò subito. Si scaricò tutti i documenti del WHO per vedere come contenere e affrontare la malattia, organizzò un reparto di isolamento e prese in mano la situazione. Si ammalarono in 400, la metà morì, tra cui 13 dei nostri sanitari. L’ultimo fu lui, Matthew, era il 5 dicembre 2000. Con il suo sacrificio l’epidemia si concluse. Ci ha lasciato questa frase: “Nessuno può obbligarci a restare. Ma se non lo faremo, sapremo che potevamo aiutare i più disperati e non l’abbiamo fatto”».

Il Dr. Matthew Lukwiya insieme a Lucille Teasdale e Piero Corti (credits: Fondazione Corti)

E poi ci sono le malattie endemiche: «Qui al Lacor ogni giorno su 500 ricoverati ne muore il quattro per cento, significa 20 persone e sono soprattutto bambini e prima di tutto di malaria. È l’unica patologia tropicale che può uccidere in 48 ore. Abbiamo istruito i volontari nei villaggi, per iniziare a dare la terapia mentre sono in viaggio verso l’ospedale, sono state distribuite zanzariere e ci sono stati progetti di disinfestazione di case e villaggi. Ogni volta che sono messi in atto, lo ha fatto per alcuni anni una fondazione americana, i malati crollano e la malaria quasi scompare, ma se il progetto finisce o non ci sono più i fondi ritorna in un attimo più forte di prima».

In questo scenario è arrivato il Covid: «Abbiamo 40 persone al giorno nell’unità Covid e in isolamento e siamo riusciti a raddoppiare la produzione di ossigeno ma non basta mai. Adesso i morti crescono ogni giorno, non solo più gli anziani, ma trentenni e quarantenni che non hanno malattie pregresse. A Gulu abbiamo perso un’ostetrica e una pediatra».
Ma ad allarmare Dominique non è tanto il Covid «che adesso si vede, ma tutto il resto, che è invisibile». Non capisco cosa significhi e allora, lentamente, compila un elenco: «Non si riescono più a garantire le terapie per l’HIV; la distribuzione dei farmaci per l’epatite; non ci sono i vaccini per il Covid ma non si fanno nemmeno quelli per il morbillo che presto tornerà ad essere una delle prime cause di morte dei più piccoli; i bambini non arrivano più nei centri sanitari se hanno la malaria e le mamme muoiono di parto, perché la gente non solo ha paura a venire in ospedale temendo di contagiarsi ma non sa come arrivarci a causa del coprifuoco e del blocco dei trasporti; infine sono tornate fame e malnutrizione». 

Il Dr. Venice nell’unità Covid (credits: Fondazione Corti)

C’è un’ultima cosa per cui non si da pace, l’aumento vertiginoso delle gravidanze tra le adolescenti: 
«È un fenomeno che avevamo già visto nel primo lockdown dello scorso anno: la chiusura delle scuole che ha esposto le giovanissime ad un aumento di violenze, maltrattamenti e abusi. Le prime indagini locali parlano di migliaia di giovanissime che hanno avuto un bambino. Dietro i numeri per me ci sono volti di bambine a cui la gravidanza ha interrotto la promessa di un futuro. Vengono stigmatizzate dalle famiglie, emarginate dalla comunità e sono quasi sempre costrette ad abbandonare gli studi. Un salto indietro drammatico».
Alla fine del nostro collegamento Dominique Atim mi dice con grande eleganza: «È un momento particolarmente delicato e difficile, qui c’è bisogno di tutto»
È il momento di dare una mano a questo straordinario ospedale, rifugio finale per gli ultimi.

Per chi fosse interessato a farlo segnalo questo link: https://dona.fondazionecorti.it

Si può donare anche con bonifico bancario intestato a Fondazione Corti.
IBAN IT23H0569601600000005945X61 causale: Emergenza Covid 

Infine, su YouTube trovate un video realizzato al Lacor in occasione dei 25 anni della Fondazione Corti, nata nel 1993 per desiderio di Piero e Lucille per sostenere l’ospedale (www.fondazionecorti.it ) e guidata dalla loro figlia.

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