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21 Gennaio 2021

Wuhan, la mia casa

Nella terza puntata della mia nuova serie podcast Altre/Storie, prodotta da Chora Media, spiego come si vive in Cina un anno dopo la scoperta del virus. Lo faccio attraverso quattro testimonianze, tra cui quella dell’infermiere Francesco Barbero. Che nella città dov’è nata la pandemia ha trovato l’amore e costruito una famiglia. Anche se oggi è lontano, tra lavoro e quarantene
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Questa è la storia di Francesco che ha scoperto la sua piccola rosa in mezzo ai fiori di ciliegio nel giardino dell’università di una città il cui nome oggi per tutti gli abitanti del mondo significa paura e morte: Wuhan. Questa è una storia di coincidenze, di legami sorprendenti, di pazienza e di attese. E, come accade spesso, questa storia l’ho scoperta facendo una domanda di troppo. Avevo finito la registrazione del nuovo podcast di Altre/Storie (che potete ascoltare qui e vi racconta attraverso quattro vite cosa sta succedendo in Cina oggi, come si vive dove è nata la pandemia, perché ci si può sedere al ristorante senza mascherina e come è possibile che ci sia stato un solo morto negli ultimi otto mesi) quando la curiosità mi ha fatto chiedere a Francesco: «Ma tua moglie come l’hai conosciuta?».

«È una storia lunga, che comincia negli anni Novanta, quando Torino avviò un gemellaggio medico-scientifico proprio con Wuhan. Gli italiani insegnarono sistemi di emergenza e di protezione civile e nel 2011 feci parte di una delegazione della Società italiana della medicina di emergenza-urgenza (SIMEU) che fece un corso sull’uso della ventilazione nella terapia intensiva. Una coincidenza incredibile, che ti racconta anche quante capacità e quanta credibilità ci sia nel sistema sanitario nel nostro Paese».

La voce di Francesco Barbero, che ha 38 anni ed è un infermiere di area critica (quelli che lavorano nelle terapie intensive), mi arriva da un luogo lontanissimo: Port Moresby in Papua Nuova Guinea, il territorio più povero dell’Oceania che si trova poco sopra l’Australia. È lì da tre mesi e lavora per una compagnia che si occupa di servizi medici e formazione, in questo momento tiene dei corsi su come gli infermieri devono agire in casi di disastri, dai terremoti alle pandemie. Ma casa sua è a Wuhan, lì lo aspettano sua moglie e sua figlia Anna, che a novembre ha compiuto un anno.

«La svolta della mia vita avviene una sera, durante quella missione di medici torinesi in Cina del 2011. Io non avevo ancora trent’anni ed ero il più giovane della delegazione. Un professore dell’università dove facevamo le lezioni ci invitò a cena l’ultima sera ma prima chiese alla figlia, che si stava specializzando in medicina d’urgenza e parlava un ottimo inglese, di accompagnarci a vedere la fioritura degli alberi di ciliegio. A cena, poi, finimmo seduti accanto».

La Wuhan University, in Cina, durante la fioritura dei ciliegi nel 2019

La giovane dottoressa si chiama Xiaowei, che in cinese significa “piccola rosa”, e con Francesco inizia una lunga corrispondenza: «Sembravamo due quattordicenni che si scrivono tutti i giorni e si raccontano mondi e culture diverse, come gli “amici di penna”». Poi lei decise di venire in Italia per frequentare il master internazionale di medicina dei disastri di Novara. «Le avevo promesso che sarei andato a prenderla in aeroporto a Malpensa ma ero a Venezia a un convegno, ricordo una corsa pazzesca per arrivare in tempo. La accompagnai a Novara, parlammo del viaggio e del suo master, le augurai fortuna ma non successe nulla di speciale. La salutai senza sapere se ci saremmo rivisti». Invece Xiaowei, pochi giorni dopo, gli mandò un messaggio: “Perché non mi porti a Venezia?”. E poi ci furono Firenze, Roma, i fine settimana a Milano.

Quando finì il master la loro storia era diventata una cosa seria, lei trovò il modo per restare in Europa con un dottorato in Germania e lui trovò lavoro a Londra nel Servizio sanitario inglese, dove pensavano di trasferirsi entrambi. Alla fine però Xiaowei ricevette un’offerta irrinunciabile per lavorare nella terapia intensiva dell’ospedale universitario della sua città e Francesco decise di seguirla. Così è cominciata la loro vita a Wuhan: «Su alcune cose i cinesi sono molto formali, il matrimonio è una di queste. Feci la mia proposta di matrimonio in piena regola, con l’anello e il discorso e poi ci sposammo in Comune. Ma niente ricevimento e celebrazione alla cinese, solo una cena con gli amici e i parenti».

Francesco Barbero (il primo in alto sulla scaletta dell’aereo) con la figlia Anna in braccio e la moglie Xiaowei (la seconda dall’alto) all’arrivo a Pratica di Mare, il 3 febbraio 2020: erano tra gli italiani evacuati da Wuhan quando è iniziata la pandemia (foto Aeronautica militare italiana)

L’immagine successiva di questa storia è del 3 febbraio dello scorso anno: quella dello sbarco di 56 persone da un Boeing KC-767A dell’Aeronautica militare italiana all’aeroporto di Pratica di Mare. È il famoso volo degli italiani evacuati da Wuhan. In cima alla scaletta c’è un uomo con una neonata in braccio, sono Francesco e Anna. «Ci portarono in una caserma alla Cecchignola per fare la quarantena, un periodo di cui ho dei ricordi stupendi perché stupendi sono stati i militari che ci hanno accolti. Lo posso dire con una certa esperienza perché il 2020 per me è stato l’anno delle quarantene: ho passato praticamente una cinquantina di giorni chiuso in posti vari, dagli hotel ai container, dalla Gran Bretagna alla Cina».

Poi Francesco, Xiaowei e la bambina andarono a Torino dove lui rispose subito all’appello lanciato dall’Ordine degli infermieri, prendendo servizio nella terapia intensiva Covid-19 dell’Ospedale di Orbassano. «Di quel periodo ho stampata nella memoria l’immagine dei colleghi che si vestivano per venire con me in terapia intensiva, della mancanza di mascherine, delle tute in cui si soffocava e il grondare di sudore all’interno degli occhiali che non mi permetteva di vedere nulla».

Francesco nel periodo in cui ha lavorato nella terapia intensiva Covid-19 dell’Ospedale di Orbassano

Il racconto dell’arrivo del coronavirus a Wuhan, che potete ascoltare nel podcast, è una somma di sottovalutazioni e impreparazione, di un’esplosione di casi che riempirono in pochi giorni tutti i posti letto disponibili negli ospedali. E poi di un lockdown totale e senza eccezioni in cui nessuno poteva più muoversi: «Dovevamo inviare, due volte al giorno, una fotografia del termometro con la temperatura di ogni componente della famiglia, ad un responsabile del controllo del condominio. In pochi giorni siamo passati dalla quarantena come la conosciamo noi, la quarantena quasi democratica, a una vera e propria prigionia, senza possibilità di uscire e scegliere cosa mangiare. La spesa arrivava sulla porta».

Così decisero di prendere al volo la possibilità di tornare in Italia. Ma dopo l’estate l’ospedale dove lavora Xiaowei le chiese di tornare, altrimenti avrebbe perso il posto. Così fecero il viaggio al contrario e una nuova quarantena. Ma la Cina che trovarono, mentre in Italia stava partendo la seconda ondata, era un Paese senza più malati di Covid-19, in cui la vita era tornata quasi normale. «La popolazione di Wuhan però è rimasta traumatizzata: non riesce proprio a parlare e ad aprirsi su quello che è successo da gennaio ad aprile. Quello è un periodo che ha segnato tutti, perché nessuno ha fatto un lockdown così lungo e così duro, e questo fa sì che il popolo cinese non voglia tornare sull’argomento. È una ferita aperta, è un trauma ancora vivo e c’è una forte paura che questa ferita possa riaprirsi da un momento all’altro».

Francesco ha ripreso il suo lavoro di “infermiere volante” in situazioni estreme, le sue missioni di lavoro durano cinque settimane, poi ha diritto a tornare a casa per un mese. Ma adesso la Cina ha di fatto sigillato le frontiere e lui per rientrare da Papua dovrebbe volare a Londra, fare due settimane di quarantena, chiedere il permesso al consolato cinese, volare a Wuhan e fare altre due settimane di quarantena prima di tornare a casa. Un mese non sarebbe sufficiente e dovrebbe immediatamente rifare la stessa trafila al contrario per tornare a lavorare.

Francesco e Xiaowei, ai tempi della crisi migratoria in Grecia nel 2015 (foto Ong Rainbow4Africa)

«Sono partito da Wuhan a metà ottobre, sapendo che sarebbe stato difficile, sarebbe stata dura, sicuramente avrei dovuto stare via per qualche mese, perché il periodo invernale immaginavo sarebbe stato un momento critico per la pandemia. Non pensavo però che sarebbe ripartita in questo modo e che sarebbero intervenute anche mutazioni importanti. Speravo di tornare a casa per febbraio-marzo. Ma a questo punto bisogna vedere come va la pandemia. Spero di tornare a vedere la mia bambina ad aprile. Spero. Per me e per tutti».

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